L'età dell'innocenza
1993
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Regista
Che Martin Scorsese, il cantore della violenza urbana, il poeta del peccato e della redenzione consumati sull'asfalto rovente di Little Italy, abbia deciso di adattare Edith Wharton, poteva sembrare nel 1993 un'eresia, una bizzarria da fine impero, quasi un capriccio intellettuale. Invece, a rivederlo oggi, L'età dell'innocenza non è solo uno dei suoi film più sontuosi e strazianti, ma è la chiave di volta per comprendere l'intera sua opera. È un film di gangster in cui le armi sono le forchette da ostrica e i pettegolezzi sussurrati nei salotti, e le sentenze di morte vengono emesse con un sorriso cordiale dietro un ventaglio di piume.
La New York degli anni Settanta dell'Ottocento che Scorsese mette in scena non è un mondo alieno al suo universo, ma ne è il progenitore, il codice sorgente. Le rigide, immutabili leggi tribali della Gilded Age, quel sistema di caste mascherato da galateo, non sono poi così diverse dall'omertà mafiosa di Quei bravi ragazzi. Le regole sono diverse, il sangue non scorre per le strade, ma la violenza è altrettanto letale. È una violenza di velluto, una crudeltà perbene che annichilisce l'anima anziché il corpo. Scorsese, da perfetto antropologo del tribalismo americano, capisce che ogni comunità, dal Five Points a Park Avenue, si fonda su rituali, tabù e sacrifici umani. In questo caso, la vittima sacrificale è la passione individuale, immolata sull'altare della "forma".
Il film è un'autopsia, condotta con la precisione di un chirurgo e la passione di un amante. La macchina da presa di Michael Ballhaus non si limita a registrare, ma indaga, fruga, quasi violando l'intimità di un mondo ossessionato dalla superficie. Ogni dettaglio della magnifica mise-en-scène di Dante Ferretti e Gabriella Pescucci – un guanto sfilato lentamente, il colore di un fiore in un'occhiata, la disposizione delle posate su una tavola imbandita – diventa un geroglifico emotivo, un indizio in una scena del crimine sentimentale. Scorsese, il nerd cinefilo per eccellenza, non si accontenta di ricreare un'epoca: la viviseziona. La sua regia è un atto di archeologia del desiderio. I rapidi inserti, le dissolvenze in tinte sature (il giallo delle rose, il rosso del fuoco), i fermo immagine che sembrano dagherrotipi di un'emozione morente, sono la firma inconfondibile di Thelma Schoonmaker, che applica il suo montaggio ritmico e modernista a un materiale apparentemente classico, creando una tensione quasi insopportabile tra la staticità della società e il tumulto interiore dei personaggi.
Il protagonista, Newland Archer (un Daniel Day-Lewis monumentale nella sua repressione, un uomo imprigionato nella sua stessa impeccabilità), è l'Henry Hill di questo mondo. È un uomo del sistema, ne conosce e rispetta le regole, ma una forza esterna – la contessa Ellen Olenska (una Michelle Pfeiffer eterea e tragica, un fantasma di una vita possibile) – gli mostra la vacuità della sua gabbia dorata. Ellen non è una femme fatale; è semplicemente una donna libera, o che almeno anela a esserlo, e per questo è un corpo estraneo, un virus che il sistema immunitario della Vecchia New York deve espellere a ogni costo. E l'agente di questa espulsione, il custode più spietato della tradizione, è la sua fidanzata, la "pura" May Welland. Winona Ryder offre una delle sue prove più sottili e inquietanti, incarnando la perfetta fusione di innocenza e spietatezza. La sua May non è una stupida; è il prodotto perfetto del suo ambiente, un angelo sterminatore in guanti bianchi la cui arma più letale è la sua apparente fragilità. La scena in cui rivela ad Archer la sua gravidanza, sigillando il suo destino, è un capolavoro di violenza psicologica degno di un Padrino in corsetto.
Ma dove Scorsese trascende il semplice dramma in costume è nel suo dialogo con la storia del cinema e della letteratura. L'età dell'innocenza è il fratello americano, più nevrotico e disperato, de Il Gattopardo di Visconti. Entrambi i film sono elegie per un'aristocrazia che si aggrappa ai propri rituali mentre il mondo esterno cambia inesorabilmente. Il ballo da Visconti, le cene e le serate all'opera da Scorsese: sono liturgie sociali che mascherano la paura della fine. C'è però una differenza fondamentale: se il Principe di Salina osserva il declino con cinica, malinconica consapevolezza, Newland Archer è un uomo che lotta ancora, che crede per un attimo di poter fuggire, rendendo la sua sconfitta finale ancora più amara.
E si potrebbe azzardare un parallelo ancora più insolito, quasi eretico, con il cinema di Yasujirō Ozu. Come nei drammi familiari del maestro giapponese, il vero campo di battaglia in L'età dell'innocenza è lo spazio del non detto. La tensione non risiede nei dialoghi, spesso banali e codificati, ma negli sguardi, nelle pause, nei gesti mancati. La tragedia si consuma nel silenzio tra una parola e l'altra, nel vuoto che separa due persone sedute nello stesso salotto. Scorsese, come Ozu, capisce che le catene più forti sono quelle invisibili del dovere sociale e della convenzione familiare.
A legare il tutto interviene un elemento meta-testuale geniale: la voce narrante di Joanne Woodward. Non è un semplice espediente espositivo, ma è la voce di Edith Wharton stessa, lo spirito del romanzo che si manifesta per guidarci in questo labirinto di segni e significati. È una voce onnisciente, colta, leggermente ironica, che agisce come un coro greco, commentando, spiegando i codici incomprensibili per noi moderni e creando una distanza critica che trasforma lo spettatore da partecipante emotivo a entomologo, intento a studiare questi strani, bellissimi e crudeli insetti intrappolati nell'ambra del passato.
L'epilogo, ambientato decenni dopo, è uno dei finali più devastanti della storia del cinema. L'anziano Archer, a Parigi, si trova di fronte alla possibilità di rivedere Ellen. Ma si ferma, sceglie di non salire. Preferisce custodire il ricordo di quella passione come qualcosa di perfetto e intatto, un'opera d'arte nella galleria della sua memoria, piuttosto che confrontarsi con la realtà. In quella rinuncia finale c'è tutto il film: il trionfo della forma sulla sostanza, della memoria sulla vita. Scorsese ci dice che l'Età dell'Innocenza non era innocente affatto; era un'era di una ferocia calcolata, la cui più grande crudeltà era negare alle persone la possibilità di essere semplicemente se stesse. E realizzando questo film, apparentemente così lontano dal suo canone, Scorsese non ha fatto altro che tornare a casa, dimostrando che i meccanismi della crudeltà umana, che si manifestino con un colpo di pistola in un vicolo o con un invito a cena rifiutato, rimangono terribilmente, universalmente, gli stessi. Un capolavoro assoluto, glaciale e incandescente.
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