Lezioni di piano
1993
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Regista
Un pianoforte, nero e solenne come un sarcofago vittoriano, giace ammutolito su una spiaggia desolata della Nuova Zelanda. Le onde spumeggianti, indifferenti, ne lambiscono le gambe tornite, mentre la sua civiltà levigata stride contro la ferocia primordiale della sabbia nera e della foresta impenetrabile che si erge alle sue spalle. Questa immagine, una delle più potenti e indelebili della storia del cinema, non è solo l'incipit de "Lezioni di piano" di Jane Campion; è la sua intera tesi distillata in un singolo, folgorante quadro. Un'immagine che evoca immediatamente l'ossessione herzoghiana di un Fitzcarraldo che trascina la sua nave-teatro su per una montagna amazzonica, il medesimo, folle tentativo di imporre un ordine culturale, un significante europeo, su una natura che non parla quella lingua e che, anzi, minaccia di inghiottirlo.
Siamo a metà del XIX secolo, e Ada McGrath (una Holly Hunter che trascende la recitazione per abitare un silenzio assordante) è la protagonista di questo sradicamento. Muta per scelta dall'età di sei anni, venduta dal padre scozzese a un colono neozelandese di nome Alisdair Stewart (Sam Neill), Ada approda in questo nuovo mondo selvaggio con i suoi unici due veri legami: la figlia Flora, precoce e quasi simbiotica, che funge da suo interprete e filtro verso il mondo, e il suo pianoforte. Ma lo strumento non è un semplice oggetto, un mobile. È un'estensione del suo corpo, un organo vocale surrogato, l'unica lingua attraverso cui la sua anima complessa, passionale e repressa può manifestarsi senza filtri. Quando Stewart, uomo pragmatico e ottuso, incapace di comprendere il valore di quell'ingombrante feticcio, lo abbandona sulla spiaggia, non sta semplicemente compiendo un gesto di convenienza. Sta mutilando Ada, recidendo la sua connessione con il sé, lasciandola nuda e afona in un paesaggio che è già, di per sé, una prigione di fango e pioggia.
Campion orchestra un dramma da camera che ha la vastità di un'epica gotica. Se le sorelle Brontë avessero immaginato le loro eroine non più confinate nelle brughiere dello Yorkshire ma proiettate ai confini del mondo conosciuto, il risultato avrebbe avuto la stessa carica tellurica. La casa di Stewart non è un castello inglese, ma una capanna claustrofobica dove il fango sembra voler strisciare dentro dalle fessure del pavimento, un avamposto di civiltà costantemente sotto assedio. La fotografia di Stuart Dryburgh immerge tutto in una palette di grigi, blu e verdi desaturati, un cromatismo umido e organico che rende l'ambiente un personaggio attivo, quasi senziente. La foresta neozelandese, con le sue felci giganti e la sua luce filtrata, non è un semplice sfondo, ma un labirinto psicologico, un luogo di perdizione e, allo stesso tempo, di liberazione ancestrale. È qui che le rigide crinoline, i guanti e le cuffiette dell'Inghilterra vittoriana perdono ogni senso, impacciando i movimenti, sporcandosi, rivelando la loro ridicola inadeguatezza.
In questo scenario emerge la terza, fondamentale figura del triangolo: George Baines, interpretato da un Harvey Keitel in uno dei suoi ruoli più inaspettati e vulnerabili. Baines è un uomo intermedio, un bianco che ha "attraversato lo specchio", adottando i tatuaggi Māori e vivendo in una sorta di limbo culturale. A differenza di Stewart, che vuole possedere e domare, Baines è un osservatore. Inizialmente, la sua proposta ad Ada – riavere il suo pianoforte, un tasto alla volta, in cambio di "lezioni" in cui lui potrà fare "cose" mentre lei suona – ha il sapore di un sordido ricatto voyeuristico. Ma Campion sovverte magistralmente le dinamiche del potere e del desiderio. Quelle che iniziano come sessioni di un erotismo quasi predatorio si trasformano in un rituale di scoperta reciproca.
Baines, guardando Ada attraverso le fessure della sua capanna, non sta semplicemente consumando un'immagine. Sta imparando ad ascoltare. La musica di Ada, composta da un Michael Nyman al suo apice creativo con una partitura che è diventata sinonimo del film stesso, è la narrazione della sua interiorità. Ogni accordo è una parola, ogni melodia una confessione. Baines è il primo uomo che non cerca di farla parlare, ma che impara la sua lingua. Le "lezioni" diventano un corteggiamento al contrario, dove il corpo e la musica si fondono in un unico atto di comunicazione. La macchina da presa di Campion si sofferma sui dettagli: un buco nella calza di Ada, la pelle nuda esposta, le dita di Baines che tracciano il contorno della sua gamba. Non c'è nulla di patinato; è una sensualità cruda, quasi goffa, ma proprio per questo incredibilmente potente e autentica. È la decostruzione femminista del romanzo rosa: qui è la donna, attraverso la sua arte e la sua silenziosa determinazione, a dettare le regole di un gioco pericoloso, a trasformare l'oggetto del desiderio in soggetto desiderante.
Il film, Palma d'Oro a Cannes nel 1993 (prima regista donna a vincerla), è anche una sottile, ma non per questo meno incisiva, riflessione sul colonialismo. La terra non è un foglio bianco su cui scrivere una nuova storia. I Māori, pur rimanendo in gran parte sullo sfondo della vicenda principale, non sono semplici comparse esotiche. La loro presenza, la loro cultura e la loro relazione con la terra rappresentano un'alternativa costante al mondo rigido e possessivo dei coloni. Stewart vuole recintare, misurare, possedere. I Māori vivono la terra. Baines, con il suo volto segnato da tatuaggi tribali, incarna il tentativo, forse impossibile, di una sintesi. Il suo percorso è un'ammissione che per sopravvivere, e soprattutto per comprendere, in quel luogo, bisogna spogliarsi delle proprie certezze europee e lasciarsi "contaminare".
L'apice della tragedia arriva quando Stewart scopre il tradimento. La sua reazione non è un duello o una scenata, ma un atto di violenza simbolica di una crudeltà inaudita. Con un'ascia, mozza un dito ad Ada. Non la uccide, non la sfregia in volto. Le toglie la voce, per la seconda volta, nel modo più letterale e definitivo possibile, colpendo lo strumento stesso del suo linguaggio: le sue mani. È un gesto che riassume tutta la sua frustrazione patriarcale, il suo terrore di fronte a una passione che non può controllare né comprendere. È la logica brutale del possesso: ciò che non posso avere, lo distruggo.
Ma il finale, come tutto il film, rifiuta le soluzioni facili. Ada, Flora e Baines lasciano l'isola su una canoa. Il pianoforte viene caricato, ma durante il viaggio Ada insiste perché venga gettato in mare. Mentre lo strumento sprofonda nell'abisso blu, una corda si impiglia nel suo piede, trascinandola giù con esso. Per un attimo, sospesa nell'acqua, sembra che Ada scelga di morire, di riunirsi per sempre alla sua anima perduta. È un battesimo mortale, una discesa volontaria nell'inconscio. Ma poi, con un ultimo, disperato atto di volontà, si libera e risale verso la luce. Questa scelta è il vero cuore del film. Ada non è più la donna definita unicamente dalla sua arte e dal suo silenzio. Sceglie la vita, imperfetta, ferita, persino banale. La vediamo in una nuova casa, con un dito artificiale d'argento, mentre impara a parlare di nuovo, con una voce roca e incerta. Non è un lieto fine hollywoodiano. È qualcosa di più complesso e vero: una rinascita. Ada ha dovuto affondare il suo passato, sacrificare il suo feticcio più sacro, per poter finalmente trovare una voce propria, non più mediata dai tasti d'avorio, ma forgiata nel dolore e nella scelta.
"Lezioni di piano" è un poema sinfonico sull'incomunicabilità e sulla disperata ricerca di un linguaggio. È un western gotico, un melodramma femminista e una favola nera. Campion ha creato un'opera che è al contempo viscerale e intellettuale, un'esperienza cinematografica totale che risuona nel corpo e nella mente. Come il pianoforte di Ada, il film è un oggetto estraneo e magnifico, depositato sulle sponde della nostra coscienza di spettatori, che continua a suonare la sua melodia struggente e indimenticabile molto tempo dopo che le luci in sala si sono riaccese.
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