Luci della Ribalta
1952
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Regista
Nel suo ultimo film americano il Maestro Chaplin affronta il problema del declino e dell’emarginazione di fine carriera degli uomini di spettacolo agganciandosi al filone già esplorato da Wilder con Sunset Boulevard. Ma se il capolavoro wilderiano era un'elegia cinica e disincantata sulla polvere e la ruggine di Hollywood, qui Chaplin imbastisce una sinfonia agrodolce, intrisa di una malinconia più tenera e profondamente personale. Luci della Ribalta non è solo un film sul viale del tramonto per i suoi personaggi, ma anche una sorta di testamento artistico e spirituale per il suo autore, un canto del cigno cinematografico che precede il suo esilio forzato dagli Stati Uniti, avvenuto proprio nel 1952 in piena isteria maccartista. La pellicola, intrisa di un'aura autobiografica quasi dolorosa, diviene così non solo la storia di Calvero, ma anche quella di Chaplin stesso, un genio incompreso da un'America che stava cambiando radicalmente, voltando le spalle a un'arte che per decenni l'aveva incantata.
A coadiuvarlo un altro immenso talento, Buster Keaton, l’unico che negli anni d’oro del cinema muto fu in grado di essere artisticamente al suo pari. Il loro incontro sullo schermo, pur breve e concentrato nell'indimenticabile sequenza finale del Music Hall, è ben più di un cameo; è un vero e proprio passaggio di consegne, una riverenza reciproca tra titani della comicità e della pantomima. La loro performance congiunta, in cui Chaplin al violino e Keaton al pianoforte tentano goffamente di accordarsi tra gag e incidenti esilaranti, è un omaggio commovente a un'era passata, un momento in cui il corpo e il gesto parlavano più di mille parole, e il riso nasceva da una precisione coreografica quasi ballettistica. È un momento di rara bellezza e profonda risonanza storica, che sublima la loro presunta rivalità in un abbraccio artistico definitivo.
C’è quindi questa sorta di meta-realtà in cui il vissuto dei due attori principali si trasfonde nella trama del film. Chaplin, che ha personalmente composto l'intera, sublime colonna sonora (un lavoro che gli valse un Oscar postumo nel 1973, in virtù della sua uscita ritardata negli USA), infonde in ogni nota e in ogni battuta la sua stessa vita, le sue delusioni, ma anche la sua incrollabile fede nell'arte. Il personaggio di Calvero, il clown dimenticato, è un alter ego lucido e struggente. La sua saggezza, le sue battute, la sua filosofia sulla vita e sul fallimento sono echi diretti della visione del mondo di Chaplin, un uomo che ha vissuto sulla propria pelle la crudeltà del pubblico e l'effimera natura della fama.
Calvero, un vecchio attore comico di Music Hall, tenta di infondere linfa vitale e talento artistico in un ballerino che ha perso la voglia di vivere, la giovane e tormentata Terry (interpretata con grazia fragile da Claire Bloom, al suo debutto sullo schermo). Il loro rapporto, una sorta di paternità spirituale non convenzionale, diviene il cuore pulsante del racconto. Calvero, nonostante la sua parabola discendente, non cessa di credere nel potere salvifico dell'arte e della risata. La sua missione è risvegliare la scintilla vitale in Terry, dimostrandole che la bellezza e il significato possono essere trovati anche nella caducità e nella sofferenza. È un tema ricorrente nell'opera di Chaplin, l'idea che l'arte non sia mero intrattenimento, ma una forza capace di redimere, di dare senso, di tenere a bada l'abisso della disperazione. Questo approccio profondamente umanista distingue Luci della Ribalta da altre narrazioni sul declino, infondendo speranza anche nel più amaro dei crepuscoli.
Celebri sono i duetti sul palco dei due grandi attori, in un’opera che scivola nell’autobiografismo. Ma non sono solo i loro numeri comici a rimanere impressi nella memoria, ma l'intera atmosfera del Music Hall, che Chaplin ricrea con un misto di nostalgia e disincanto. I sipari polverosi, le quinte affollate, l'odore di sudore e trucco, la luce effimera della ribalta: tutto contribuisce a costruire un mondo che è al contempo magico e crudele. La sequenza finale, in cui Calvero si esibisce per l'ultima volta di fronte a un pubblico entusiasta, solo per collassare dietro le quinte mentre Terry balla con grazia ritrovata, è uno dei momenti più strazianti e sublimi della storia del cinema. È il sacrificio dell'artista per la sua arte, l'idea che lo spettacolo debba continuare a tutti i costi, anche se l'anima dietro il sorriso si sta spegnendo. Questa scena, in particolare, è un inno alla resilienza dell'artista e alla perpetuità dell'arte stessa, che trascende la vita di chi la crea.
La regia di Chaplin, più matura e meno incline agli eccessi slapstick dei suoi primi lavori, si concentra qui sulla psicologia dei personaggi e sull'emozione pura. Le inquadrature sono spesso lunghe, quasi teatrali, permettendo agli attori di esprimere tutta la gamma delle loro espressioni. La fotografia, malinconica e luminosa a tratti, evoca la dicotomia tra la fredda realtà e il caldo, illusorio mondo del palco. Luci della Ribalta non è solo un film sulla fine di un'era per l'arte circense e del vaudeville, ma è anche un potente commento sulla solitudine dell'artista e sulla crudeltà del successo. Chaplin ci invita a riflettere sulla fragilità del genio, sulla sua capacità di portare gioia agli altri anche quando la propria vita è avvolta dalla tristezza. È un film che si posiziona come un ponte tra il glorioso passato del muto e la complessità emotiva del cinema moderno, dimostrando che il potere della narrazione va ben oltre i cambiamenti tecnologici o le mode del momento.
Un film assolutamente da non perdere, per conservare bene a mente la cifra del dono, della destrezza, della predisposizione geniale di due grandi maestri della commedia e del cinema in senso lato. Un'opera che, a settant'anni dalla sua uscita, continua a risuonare con una commovente attualità, ricordandoci che la vera arte non invecchia mai e che il riso, anche quando intriso di lacrime, è la più nobile delle espressioni umane. È una lezione di vita, di resilienza e di amore per la performance, un capolavoro che conferma Chaplin non solo come il più grande mimo del mondo, ma anche come un profondo filosofo dell'esistenza.
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