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L'inizio del cammino

1971

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Roeg, già divino direttore della fotografia per Truffaut (Fahrenheit 451) e Lester (Petulia), emerge qui da una co-regia (l'altrettanto seminale Performance) per firmare il suo manifesto. E lo fa prendendo il concetto di "narrativa" e annegandolo nel deserto australiano. Walkabout è un film che si sente sulla pelle: il caldo, la polvere, l'assoluta, terrificante indifferenza del reale.

Il film si apre su una visione dell'apocalisse che è al contempo sterile e assordante. La geometria inflessibile di Adelaide, i suoni sintetici alla Stockhausen (o è solo il rumore bianco della nostra disperazione?) che escono da una radio portatile, e un atto di thanatos così improvviso e privo di spiegazioni da scuotere le fondamenta del patto narrativo. Il Padre (John Meillon), figura archetipica dell'alienazione borghese, tenta di uccidere i suoi figli e si uccide, incendiando l'auto che è l'ultimo simulacro di quella civiltà. Non c'è movente psicologico, non c'è contesto; c'è solo l'implosione. Roeg ci dice immediatamente che le regole della nostra logica sono sospese. La Ragazza (Jenny Agutter, in un ruolo che definisce la sua carriera) e il Bambino (Luc Roeg, figlio del regista), si allontanano nel deserto, ancora vestiti con le loro impeccabili uniformi scolasticche. Sono Adamo ed Eva cacciati non dal Giardino, ma dalla prigione climatizzata.

L'Outback di Roeg non è il deserto lirico di David Lean. È un cosmo brulicante, un'entità viva, quasi senziente, che il regista (che è anche il proprio, sublime direttore della fotografia) filma con la precisione di un entomologo e l'estasi di un mistico. Usa lenti a lunga focale per comprimere lo spazio, per far vibrare l'aria di calore, trasformando l'orizzonte in un miraggio liquido. L'occhio della sua camera non si limita a osservare; penetra. Macro-riprese di insetti, rettili che strisciano, la grana stessa della sabbia. Roeg non ci mostra un paesaggio; ci mostra un ecosistema dove ogni elemento, dal più piccolo granello alla vastità del cielo, è connesso in un ciclo di creazione e distruzione che non ha nulla a che fare con la moralità umana. Il deserto non è "vuoto". È pieno fino all'orlo di una vita che ci è estranea, e la colonna sonora (Karlheinz Stockhausen, ma anche i suoni naturali amplificati) sottolinea questa alterità radicale.

È in questo Purgatorio ecologico che avviene l'incontro. L'apparizione del Ragazzo Aborigeno (l'esordio magnetico e fondamentale di David Gulpilil) non è un deus ex machina, ma l'introduzione di un sistema di conoscenza completamente diverso. Gulpilil, con la sua presenza che trascende la recitazione ed entra nel reame dell'essere, non è il "Nobile Selvaggio" di Rousseau. Roeg è troppo intelligente per cadere in questa trappola. Il ragazzo è, semplicemente, competente. Sa leggere i segni che per i due bianchi sono rumore di fondo. Sa trovare l'acqua dove c'è solo polvere. Sa cacciare.

Ed è qui che l'editing di Roeg (coadiuvato da Graeme Clifford) diventa lo strumento principale di indagine filosofica. Walkabout è forse il più grande esempio di cinema come strutturalismo. Roeg utilizza il montaggio non per far avanzare la trama (che è minima: sopravvivere), ma per creare collisioni semantiche. La scena più celebre, e giustamente, è quella del macellaio. Mentre il Ragazzo Aborigeno caccia un canguro con precisione rituale, una danza di necessità, Roeg ci sbatte in faccia, con tagli brutali, un macellaio in un negozio civilizzato che fa a pezzi carcasse. La violenza è la stessa? No. Il montaggio ci costringe a vedere la differenza: la prima è partecipazione al ciclo della vita; la seconda è violenza sterile, disconnessa, un atto di puro consumo.

Questa tecnica è onnipresente. La Ragazza che cerca di comunicare con il ragazzo usando gesti, e Roeg che taglia su ricercatori bianchi in una stazione meteorologica che lanciano palloni sonda: due tentativi ugualmente fallimentari di misurare e controllare l'incommensurabile. Il film è un saggio sulla tragica intraducibilità delle esperienze. La lingua non è solo un ostacolo; è l'intera forma mentis ad esserlo. Quando il fratellino cerca di tradurre, semplifica la cultura della ragazza in "Lei dice di no", e la cultura del ragazzo in "Lui dice che l'acqua è più avanti". È il collasso della semiotica.

La famosa sequenza del bagno nudo della Ragazza è un capolavoro di equilibrio. Lontana da qualsiasi prurigine voyeuristica, è la scena della possibilità. È un ritorno a uno stato pre-lapsario, un'immersione letterale nel paesaggio. Roeg la filma con un candore assoluto, ma la carica di una tensione che non è (solo) sessuale, ma culturale. È il momento in cui la "civiltà" – la vergogna, il pudore, la proprietà del corpo – potrebbe essere lavata via. Ma questa scena è montata in parallelo con la caccia e le danze del ragazzo. I loro mondi si sfiorano, si sovrappongono visivamente, ma non si incontrano mai veramente. Il film è basato sul romanzo di James Vance Marshall, ma Roeg e lo sceneggiatore Edward Bond ne tradiscono saggiamente lo spirito, rifiutando la conversione paternalistica del libro originale per un finale molto più cupo e infinitamente più onesto.

La tragedia di Walkabout non è la fame o la sete. La tragedia è il fallimento della connessione. Il momento cruciale è la danza rituale del Ragazzo Aborigeno. È un'offerta, un tentativo di colmare il divario attraverso l'arte, il rito, forse persino il corteggiamento. Ma la Ragazza, spaventata, prigioniera dei codici che si è portata nel deserto, la interpreta come una minaccia. Lo rifiuta. E quel rifiuto è un colpo mortale. La sua reazione "civilizzata" (la paura dell'ignoto, la repressione della sessualità) porta direttamente alla disperazione e alla morte (stilizzata, poetica, terribile) del ragazzo. Non è stato il deserto a ucciderlo; è stata la civiltà. È un microcosmo del genocidio culturale: l'incapacità di vedere l'Altro se non come una versione imperfetta di sé stessi o come una minaccia.

E poi, il finale. Un colpo di genio che spezza il cuore. Un flash-forward ci mostra la Ragazza, anni dopo, tornata in quella stessa Adelaide da cui era fuggita. Ora è una donna borghese, intrappolata in un appartamento asettico, con un marito (un opaco uomo d'affari al telefono) che incarna tutto ciò che il deserto non era. E mentre lui parla di promozioni, lei ricorda. Roeg ci restituisce l'immagine del lago, dell'eden perduto, dei tre (lei, il fratello, il ragazzo) che nuotavano liberi. Non è nostalgia. È il lamento funebre per un'opportunità mancata. Ha scelto la civiltà, ma ora capisce che quella era la vera morte. L'inizio del cammino non era una prova di sopravvivenza fisica, ma un test spirituale, e lei – rappresentante di tutto il nostro mondo "razionale" – ha fallito.

Walkabout è un film che continua a porre domande. È un'opera di una bellezza lancinante e di una tristezza profonda, un poema visivo che usa il montaggio come un bisturi per incidere la pelle della realtà e mostrare i nervi scoperti della nostra disconnessione. È l'atto di nascita di un autore visionario e un lamento per un mondo che abbiamo dimenticato come abitare.

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