L'Invasione degli Ultracorpi
1956
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Regista
Don Siegel dirige un film che anticipa e crea modelli inquietanti per la fantascienza: il pattern del Doppelgaenger e della possessione corporale. Ma non si tratta di una mera riproposizione di archetipi letterari già esplorati da E.T.A. Hoffmann o Edgar Allan Poe. Siegel, con la sua magistrale sobrietà, eleva questi concetti a un livello di terrore ontologico, dove la minaccia non è l'invasore palese, ma la perdita insidiosa, quasi invisibile, di sé, del proprio io più profondo. La paura non è di essere uccisi, ma di essere svuotati, trasformati in guscio, pur mantenendo la perfetta fisionomia. È la perfetta incarnazione dell'"unheimlich" freudiano: il familiare che diventa estraneo, perturbante, perché ciò che ci definisce è stato irrimediabilmente alterato.
In una pacifica cittadina statunitense, Santa Mira, gli abitanti vengono gradatamente sostituiti da esseri alieni senza emozioni, una sorta di entità ostili che tirano i fili dei corpi ospitanti. La loro strategia non è la conquista militare, ma l'assimilazione biologica: una guerra silenziosa e domestica, combattuta nelle case, nelle strade, nei giardini suburbani. Il processo di duplicazione, che avviene durante il sonno tramite giganteschi baccelli vegetali, è rappresentato con una scientificità agghiacciante, priva di orpelli fantastici, rendendo l'orrore ancora più tangibile e verosimile. Questo meccanismo di sostituzione, che annulla ogni individualità e sentimento, risuonava con forza nella società americana degli anni Cinquanta, intrisa della paranoia maccartista e della paura del conformismo di massa. La minaccia comunista, dipinta come un contagio ideologico che privava l'individuo della propria libertà di pensiero, trovò nel film di Siegel la sua più vivida e ambigua allegoria cinematografica, lasciando lo spettatore libero di interpretare gli "ultracorpi" come l'incarnazione del pericolo rosso o, al contrario, come una critica al soffocante conformismo di una società che imponeva la soppressione delle emozioni e delle differenze.
Un entusiasmante viaggio nella psiche umana e nel concetto di identità. Ma anche un estenuante confronto tra sè ed altro-da-sè. Il dottor Miles Bennell (Kevin McCarthy), il protagonista, si ritrova a lottare non contro mostri riconoscibili, ma contro le facce familiari dei suoi vicini, amici e persino della donna che ama, tutti trasformati in replicanti privi di calore umano. La sua odissea solitaria attraverso una città apparentemente normale, ma ormai deserta di umanità autentica, è un incubo kafkiano dove la realtà stessa si deforma. La tensione deriva non da salti sulla sedia, ma dall'angoscia crescente di non poter più fidarsi di nessuno, di non distinguere più l'originale dalla copia perfetta. Il film esplora la fragilità dei legami umani e la solitudine esistenziale di fronte a una minaccia che non si combatte con le armi, ma con la salvaguardia disperata della propria anima e della propria capacità di provare sentimenti. Il "sonno" dal quale ci si risveglia alieni, privi di ansie e dolori, è un'inquietante metafora della rinuncia alla propria umanità in cambio di una pace innaturale e apaticamente imposta.
Un’opera che lungo la storia del cinema si è vista saccheggiare il proprio bagaglio semantico da decine di cineasti innamorati della sua irripetibile atmosfera, della sua cupa inquietudine, del senso di muto orrore che cela dietro ogni inquadratura. Dal claustrofobico capolavoro di John Carpenter, La Cosa (che condivide la paranoia della sostituzione), alle successive e pur meritorie riletture di Philip Kaufman nel 1978 e di Abel Ferrara nel 1993, l'eco del film di Siegel è onnipresente. Kaufman, in particolare, reinterpretò l'allegoria, spostandola dalla guerra fredda alla paranoia post-Watergate, con un'enfasi sulla perdita di fiducia nelle istituzioni, ma lo fece con un budget e mezzi che il capostipite si sognava, e che tuttavia non intaccarono la sua purezza. La capacità di Siegel di generare un terrore così profondo con un budget ridotto, sfruttando il bianco e nero per accentuare le ombre e l'alienazione, e una regia essenziale che privilegiava i primi piani e i movimenti di macchina fluidi per catturare la crescente disperazione di Miles, è una lezione di cinema. Il suo "muto orrore" si manifesta nella sottile, ma devastante, disconnessione emotiva dei replicanti, nei loro sguardi vuoti, nei sorrisi forzati che tradiscono l'assenza di anima.
Inutile dire che nessuno è riuscito a riprodurne la magica miscela di horror, thriller psicologico e fantascienza. L'Invasione degli Ultracorpi trascende il genere, affermandosi come un trattato sulla natura dell'identità e sulla minaccia della deumanizzazione. La sua potenza non risiede negli effetti speciali – quasi inesistenti – ma nella sua ambiguità di fondo, nel suo essere un palinsesto su cui proiettare le paure più recondite di ogni epoca. La diatriba sulla lettura politica (anti-comunista o anti-maccartista?) è stata per anni una fonte di fascino critico, ma la verità è che il film funziona su un piano più universale: quello della paura di perdere ciò che ci rende unici e umani, sia per mano di un nemico esterno che di una pressione interna alla conformità. Il finale, imposto dalla produzione e più ottimistico rispetto a quello originale di Siegel (che vedeva Bennell urlare disperatamente al mondo indifferente), non riesce a intaccare la forza disperata del messaggio: la resistenza è solitaria, la minaccia è onnipresente, e la salvezza non è mai garantita. Un classico senza tempo, la cui inquietante attualità persiste in ogni epoca in cui il concetto di individualità e la libertà di pensiero sembrano minacciati.
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