L'isola di corallo
1948
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Regista
Sotto una cappa di umidità opprimente, in un’attesa febbrile che precede l’uragano, si consuma il dramma da camera di John Huston, L’isola di corallo. Ma sarebbe un errore madornale, una svista da neofiti, liquidarlo come un semplice gangster movie tardivo, un ultimo giro di valzer per la coppia d'oro Bogart-Bacall. No, il film di Huston, tratto dall'omonima pièce teatrale di Maxwell Anderson, è un barometro dell'anima americana del 1948, un Kammerspiel esistenziale mascherato da noir, dove il vero conflitto non si gioca tra la legge e il crimine, ma tra il cinismo post-bellico e la necessità disperata di ritrovare un codice morale in un mondo che sembra averlo smarrito tra le rovine fumanti dell'Europa.
Il Frank McCloud di Humphrey Bogart non è il Sam Spade de Il mistero del falco né il Rick Blaine di Casablanca. È ciò che ne rimane dopo la guerra. Un uomo svuotato, un eroe di guerra che ha visto l'orrore indicibile a San Pietro e ora cerca solo l'oblio, un rifugio dall'impegno. La sua passività iniziale, il suo "non immischiarsi", non è codardia, ma una scelta filosofica, la stanca consapevolezza di chi ha già pagato il suo tributo di sangue e ora reclama il diritto all'indifferenza. È un Amleto in camicia estiva, arenato in un hotel fatiscente della Florida, un Elsinore soffocante dove il fantasma da affrontare non è quello di un padre, ma quello del proprio dovere civico. La sua intera postura, la sua economia di gesti, il modo in cui osserva gli eventi con una distanza quasi accademica, traducono perfettamente il miasma di disillusione che attanagliava una generazione tornata vittoriosa dal fronte, solo per scoprire che i mostri non erano stati tutti sconfitti.
A questo reduce dell'anima si contrappone una reliquia mostruosa, un ectoplasma mefitico dell'era del Proibizionismo: Johnny Rocco, incarnato da un Edward G. Robinson che compie un'operazione meta-cinematografica di rara intelligenza. Rocco non è solo un gangster; è la parodia grottesca e sudaticcia del Rico Bandello di Piccolo Cesare. Diciassette anni dopo, il mito del self-made man criminale si è dissolto in una pozzanghera di autocommiserazione e brutalità senile. Huston ce lo presenta immerso in una vasca da bagno, un re decaduto nel suo patetico trono d'acqua, non più un simbolo di potere ma un fascio di nervi e paranoia, terrorizzato da un uragano che è la sineddoche della sua stessa irrilevanza storica. È un dinosauro che non sa di essere estinto, e la sua violenza è tanto più spaventosa quanto più è futile, l'ultimo rantolo di un'epoca sepolta. Lo scontro tra McCloud e Rocco è quindi un'allegoria: l'America del New Deal, che ha combattuto il fascismo, contro il fantasma del capitalismo predatorio e individualista degli anni '20.
L'hotel dei Temple, gestito da un Lionel Barrymore la cui infermità fisica contrasta con la sua incrollabile statura morale, diventa un microcosmo, un'arca in attesa del diluvio. All'interno di queste pareti scrostate dal sale, Huston orchestra una sinfonia di tensioni claustrofobiche che ricorda Sartre più di Dashiell Hammett. "L'inferno sono gli altri", e qui l'inferno è una stanza piena di ostaggi costretti a subire i capricci di un tiranno minore. La sceneggiatura, firmata da Huston e Richard Brooks, è un meccanismo a orologeria. Ogni dialogo è un colpo di fioretto, ogni silenzio è carico di minaccia. La fotografia di Karl Freund, maestro dell'Espressionismo tedesco che aveva plasmato le ombre di Metropolis e Dracula, avvolge la scena in un bianco e nero denso e appiccicoso come la melassa, trasformando il sudore sui volti degli attori in una maschera tragica.
Ma il cuore pulsante e sanguinante del film, il momento in cui L’isola di corallo trascende il genere per diventare tragedia pura, è affidato a Claire Trevor nel ruolo di Gaye Dawn, l'ex cantante alcolizzata e compagna di Rocco. La sua interpretazione, che le valse un meritatissimo Oscar, è una delle più strazianti della storia del cinema. La scena in cui è costretta da Rocco a cantare "Moanin' Low" in cambio di un drink è un saggio di crudeltà psicologica che gela il sangue. Il suo canto stonato, tremante, a cappella, è il lamento di un'anima spezzata, un grido disperato che squarcia l'ipocrisia della situazione. Non è un'esibizione, è una vivisezione. In quel momento, McCloud e lo spettatore sono costretti a guardare l'abisso, a capire che la neutralità di fronte a una tale umiliazione non è più una scelta, ma una complicità. È la cartina di tornasole morale che innesca la catarsi del protagonista. La performance della Trevor è talmente potente da elevare il film a un piano superiore, trasformando un dramma di gangster in una riflessione universale sulla dignità umana e sul suo annientamento.
Anche la dinamica tra Bogart e Bacall è diversa, più matura e crepuscolare rispetto ai loro precedenti incontri. Non c'è più il gioco di seduzione sfrontato de Il grande sonno. Qui, la loro è un'alleanza di anime affini, uniti dalla perdita (lei è la vedova del commilitone di lui) e dalla ricerca di un barlume di speranza. La Nora di Lauren Bacall è la coscienza silenziosa del film, i suoi occhi sono lo specchio in cui McCloud è costretto a vedere il riflesso dell'uomo che potrebbe ancora essere. La loro chimica non è fatta di battute taglienti, ma di sguardi carichi di comprensione e di non detti. È il degno, malinconico congedo di una delle coppie più iconiche dello schermo.
Il finale, che si discosta nettamente dalla pièce teatrale per volere dello studio, è una concessione all'azione che però non tradisce lo spirito del film. Lo scontro finale in mare aperto, sulla barca "Santana" (nome che Bogart darà poi alla sua casa di produzione e al suo yacht personale), è la liberazione catartica dalla stasi dell'hotel. È un western morale in un acquario, dove il protagonista, finalmente risvegliato dal suo torpore esistenziale, affronta il mostro nel suo elemento. Ma non è una vittoria gloriosa. È un atto sporco, necessario, compiuto in solitudine. Quando McCloud, dopo aver eliminato Rocco e la sua banda, inverte la rotta e torna verso Key Largo, non c'è trionfalismo. C'è solo il sollievo stanco di chi ha fatto ciò che andava fatto, accettando finalmente il peso della propria coscienza.
L’isola di corallo è un'opera stratificata, un film che parla del suo tempo con la lucidità di un saggio sociologico e la potenza di un mito greco. È la storia di una nazione e di un uomo che, dopo aver vinto la guerra più grande, devono imparare di nuovo a combattere le piccole battaglie quotidiane per la decenza, per la dignità, per un principio. John Huston, da grande cantore di fallimenti eroici e di vittorie amare qual era, dirige un capolavoro di atmosfera e di introspezione, dimostrando che a volte la tempesta più violenta non è quella che si scatena fuori, ma quella che infuria, silenziosa, dentro l'animo umano. Un'opera essenziale, non solo per comprendere il noir, ma per decifrare il codice genetico di un'intera epoca.
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