Little Miss Sunshine
2006
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Registi
Un furgone Volkswagen T2 giallo canarino, sgangherato e spinto a braccia lungo le highway assolate del sud-ovest americano, è l'immagine che definisce e al contempo tradisce la natura profonda di Little Miss Sunshine. Un'icona di controcultura hippie, di ottimismo on the road, qui declassata a sarcofago ambulante per le ceneri del Sogno Americano, un trabiccolo tenuto insieme più dalla disperazione che dai bulloni. È dentro questo microcosmo clacson-munito e cronicamente in panne che Jonathan Dayton e Valerie Faris orchestrano non una commedia, ma una tragedia greca mascherata da road movie, un'esegesi della disfunzionalità familiare che ha la precisione chirurgica di un racconto di Raymond Carver e l'umorismo nero di un romanzo di Kurt Vonnegut.
La famiglia Hoover non è semplicemente "eccentrica", come vorrebbe una lettura superficiale. È una costellazione di archetipi fallimentari, un campionario vivente delle patologie del capitalismo motivazionale di inizio millennio. C'è Richard (un Greg Kinnear sublime nella sua patetica cecità), il padre, un predicatore del successo la cui filosofia in nove passi è palesemente inapplicabile alla sua stessa vita. È un moderno Willy Loman, che vende non prodotti ma un'ideologia tossica di "vincenti" e "perdenti", una dicotomia binaria che la vita stessa si incarica di polverizzare. Sua moglie Sheryl (Toni Collette, sismografo di ogni frustrazione repressa) è il centro di gravità che cerca disperatamente di impedire che i pianeti impazziti della sua famiglia volino via ognuno per la propria tangente.
Poi i satelliti, ognuno nella sua orbita di disperazione. Il figlio adolescente, Dwayne (un Paul Dano già presagio del suo immenso talento), ha fatto voto di silenzio nietzschiano in attesa di entrare nell'Air Force Academy, comunicando solo tramite un lapidario taccuino. La sua è una ribellione ascetica, una forma di purificazione attraverso la negazione, che crollerà in uno degli urli più catartici e strazianti della storia del cinema indipendente. Lo zio Frank (Steve Carell, in una performance che ha svelato al mondo la sua abissale profondità drammatica) è il più grande studioso di Proust d'America, un intellettuale gay reduce da un tentato suicidio dopo essere stato sconfitto in amore e carriera dal suo rivale accademico. La sua presenza è un contrappunto ironico e letale: cosa ci fa l'esegeta della memoria involontaria e del tempo perduto in un viaggio proiettato verso un futuro di successo così posticcio? E infine il nonno (Alan Arkin, Oscar meritato per una manciata di scene fulminanti), un edonista sfrontato, eroinomane e sboccato, cacciato dall'ospizio. È una sorta di Falstaff postmoderno, un mentore scorretto che allena la nipotina Olive per il concorso di bellezza insegnandole coreografie da spogliarellista.
Al centro di questo caos, come un piccolo, innocente buco nero che attrae a sé tutta la materia disfunzionale, c'è Olive (Abigail Breslin), la "Little Miss Sunshine" del titolo. Non è bella secondo i canoni plastificati dei concorsi, porta occhiali spessi e ha una pancia innocente. Eppure, è l'unica a possedere un obiettivo puro, non contaminato dall'ansia di rivalsa o dalla paura del fallimento. Il suo viaggio verso la California per partecipare a un concorso di bellezza per bambine diventa la catabasi della famiglia, una discesa agli inferi dell'America più grottesca.
Il genio della sceneggiatura di Michael Arndt, un meccanismo a orologeria di setup e payoff che mima la perfezione dei classici di Billy Wilder, sta nel trasformare il viaggio stesso in un personaggio. Il pulmino VW non è un semplice mezzo di trasporto; è la metafora perfetta della famiglia Hoover. Non parte se non spinto da tutti, il cambio è rotto, il clacson è impazzito in un urlo perenne. È un corpo malato che richiede un'azione collettiva per ogni singolo, faticoso progresso. La sequenza in cui la famiglia deve spingere il furgone fino a fargli prendere velocità per poi saltarci dentro in corsa è una delle più potenti allegorie del concetto stesso di "famiglia": un peso morto che non si muove senza lo sforzo congiunto e affannoso di tutti i suoi membri. Durante il tragitto, il furgone diventerà persino un'improvvisata auto funebre, in una sequenza che mescola l'assurdo e il tragico con una maestria che ricorda il miglior cinema dei fratelli Coen.
Little Miss Sunshine si inserisce in un contesto culturale, quello americano di metà anni 2000, saturo di ottimismo di facciata e di narrative di successo imposte dai reality show e dalla cultura self-help. Era l'America post-11 settembre, un paese che aveva un disperato bisogno di credere in storie di vittoria contro ogni probabilità. Il film di Dayton e Faris prende questa necessità e la fa a pezzi con una delicatezza spietata. L'arrivo in California non è una terra promessa, ma l'ingresso in un girone dantesco. Il concorso di "Little Miss Sunshine" è un tableau vivant grottesco e terrificante, un'orgia di bambine iper-truccate, iper-cotonate, trasformate in replicanti in miniatura di un ideale di femminilità adulto e sessualizzato. Assomiglia a una sequenza di un film di David Lynch o a una fotografia di Diane Arbus: un'esplorazione del bizzarro che si annida sotto la superficie della normalità suburbana.
E qui arriva il climax, uno dei più liberatori e iconoclasti della commedia moderna. L'esibizione di Olive sulla note di "Super Freak" di Rick James, coreografata dal nonno eroinomane, non è un semplice numero comico. È un atto di terrorismo culturale. È un'esplosione punk nel tempio della conformità. In quel momento, Olive non sta cercando di vincere; sta celebrando la sua inadeguatezza, la sua "stranezza", la sua autenticità. È un gesto di pura gioia che manda in cortocircuito l'intero sistema. La vera vittoria, l'epifania del film, non è il trionfo di Olive, ma la reazione della sua famiglia. Uno dopo l'altro, Richard, Sheryl, Dwayne e Frank salgono sul palco per ballare con lei, in un goffo, meraviglioso e impacciato balletto di solidarietà. È il momento in cui i "nove passi verso il successo" vengono calpestati e gettati nel cestino. La famiglia Hoover, finalmente unita, trova la propria salvezza non nel raggiungimento di un obiettivo, ma nell'abbracciare collettivamente il proprio glorioso, spettacolare fallimento.
Questo non è un film "feel-good", è un film "feel-real". La sua eredità non risiede nella sua estetica indie-chic, che ha generato innumerevoli imitatori meno ispirati, ma nella sua profonda comprensione umanistica. Ci dice che la sofferenza, come dice Proust attraverso il suo discepolo Frank, non è tempo sprecato, ma il terreno fertile da cui può nascere la vera conoscenza di sé. E ci dice, soprattutto, che nella spietata gara per diventare "vincenti", l'atto più rivoluzionario è scegliere di perdere tutti insieme, ballando come dei pazzi su un palco che non ci appartiene. È una lezione che riecheggia la malinconia dei personaggi di Salinger e la rabbia esistenziale del New Hollywood degli anni '70, distillata in novanta minuti di cinema perfetto, amaro e luminoso come un tramonto nel deserto del Mojave visto dal finestrino di un pulmino scassato.
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