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Lo Specchio della Vita

1959

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Sirk, il maestro incompreso, la cui riscoperta da parte di critici lungimiranti come quelli dei Cahiers du Cinéma e l'omaggio appassionato di Rainer Werner Fassbinder ne hanno finalmente riaffermato la grandezza, non fu mai un mero artefice di storie strappalacrime. Al contrario, già autore di capolavori stratificati quali “Secondo Amore” (1955) e “Come le Foglie al Vento” (1956), Sirk prende in mano il melodramma, non per indulgervi, bensì per dissezionarne le viscere, per utilizzarne le convenzioni più sfacciate come strumenti chirurgici. Con "Lo Specchio della Vita" (1959), opera che risplende di una bellezza tragica e di un'intelligenza feroce, Sirk ne restituisce non solo una lucida critica sociale, ma un vero e proprio manifesto cinematografico, un solido impianto narrativo teso a mettere in luce un’America post-bellica che, sotto la patina di prosperità e ottimismo veicolata dal consumismo rampante degli anni Cinquanta, era ancora dilaniata da conflitti razziali profondamente radicati e da un egoismo di classe accecante, dinamiche corrosive che ne spezzavano violentemente gli equilibri sociali e individuali. Il suo Technicolor lussureggiante e la messa in scena sontuosa non sono mai gratuiti, ma parte integrante di un'ironia visiva che esaspera la superficie per rivelare la putrefazione sottostante.

Basato sull’omonimo e controverso romanzo di Fannie Hurst, che già aveva ispirato una versione cinematografica nel 1934 – pur nobile nel suo intento ma inevitabilmente più convenzionale e meno tagliente – il film di Sirk si immerge nella narrazione con una profondità e una spietatezza inedite. Narra la storia di Lora Meredith, un’attrice dalla bellezza glaciale e dall'ambizione insaziabile, che dopo aver speso la propria vita alla disperata ricerca di un successo inarrivabile nel mondo patinato di Broadway, finisce per trascurare la figlia Susie, affidandola alle cure amorevoli e incondizionate di Annie Johnson, la sua governante di colore, donna di rara dignità e abnegazione. Ma il dramma si annoda ulteriormente attorno a quest'ultima, la cui figlia, Sarah Jane, si dibatte in un tormento identitario lancinante: presto la rinnegherà, il colore della sua pelle – troppo chiaro per i canoni razziali dell'epoca, abbastanza scuro da definirla "nera" in una società segregazionista – diventando per lei una condanna da cui tentare di fuggire, in un tentativo disperato di "passare per bianca" e inseguire la stessa chimerica visione di un successo irraggiungibile, fatta di effimera accettazione sociale e agognata celebrità sui palchi da night club. La sua ribellione è il cuore tragico e pulsante del film, un grido disperato contro l'ingiustizia di un sistema che definisce l'identità e il destino prima ancora della nascita.

Le performance sono, senza esagerazione, magistrali, vere e proprie architetture emotive che definiscono una nuova dimensione di recitazione, sublimando il concetto stesso di interpretazione melodrammatica. Lana Turner nei panni di Lora Meredith incarna la quintessenza del divismo hollywoodiano, ma la sua maschera di perfezione è costantemente incrinata da un vuoto esistenziale che la sua carriera, per quanto trionfante, non riesce a colmare. La sua Lora è una Venere algida che sacrifica la maternità sull'altare dell'ambizione, incapace di un amore disinteressato. A contrappunto, Juanita Moore, nel ruolo di Annie Johnson, offre una prova di statuaria dignità e commovente vulnerabilità, la sua figura è un faro di amore incondizionato, l'unica vera fonte di calore umano in un universo altrimenti gelido; la sua agonia silenziosa per il rifiuto della figlia è un pugno nello stomaco che eleva il film a vette di autentica tragedia greca. Sandra Dee, nel ruolo della trascurata Susie, dona alla figura della figlia “bianca” una malinconia sottile e toccante, mentre è Susan Kohner, nei panni della tormentata Sarah Jane, a scuotere dalle fondamenta le certezze dello spettatore con la sua rappresentazione cruda e viscerale del rinnegamento identitario. Il loro è un valzer macabro di solitudini interconnesse, in cui la scarna rilevanza di un mondo femminile costruito sul cinismo, sull'opportunismo e sul desiderio insopprimibile di arrampicarsi sulla scala sociale a dispetto di ogni legame affettivo, di ogni principio morale, si manifesta in tutta la sua glaciale brutalità. Sirk, attraverso queste figure femminili complesse e spesso tragiche, esplora il prezzo esorbitante del "sogno americano" quando questo si trasforma in un'ossessione per il successo materiale e l'accettazione sociale, svelando la profonda alienazione che si cela dietro la facciata di perfezione borghese.

Ottimo Sirk, dunque, non solo sul ponte di comando, ma come lucido demiurgo di un'opera che trascende i confini del proprio genere. "Lo Specchio della Vita" sarà il suo ultimo film hollywoodiano, una decisione maturata non per assenza di successo, ma per una crescente disillusione verso un sistema di produzione che imbrigliava le sue velleità artistiche, spingendolo al ritorno in Germania. Ed è proprio per questa sua carica di summa tematica e stilistica che molti, a ragione, lo reputano il suo testamento artistico. Qui confluiscono e si sublimano tutti i suoi temi prediletti: l'illusione contro la realtà, la prigione delle convenzioni sociali, la disintegrazione del nucleo familiare sotto il peso delle ambizioni individuali, e soprattutto, l'incapacità dell'amore, pur nella sua forma più pura e disinteressata, di superare le barriere erette dal pregiudizio e dalla superficialità. Il funerale di Annie, con la sua sfilata grandiosa di dolore pubblico e la performance straziante di Mahalia Jackson, è l'apice di questa maestria sirkiana: un momento di kitsch sublime che, lungi dall'essere puro esercizio stilistico, diventa la più potente e paradossale denuncia della vacuità e ipocrisia di una società che sa esprimere il lutto solo attraverso un'ostentazione quasi circense, ignorando la vita e i sacrifici compiuti. L'ombra cupa del razzismo e la critica tagliente al miraggio di un'America equa e meritocratica rimangono attuali con una forza disarmante, rendendo "Lo Specchio della Vita" non solo un capolavoro del suo tempo, ma una riflessione senza tempo sulle menzogne che raccontiamo a noi stessi e agli altri, e sul prezzo terribile che siamo disposti a pagare per mantenere una facciata, per abitare l'immagine riflettuta in uno specchio che, alla fine, rivela solo un'amara verità.

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