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L’Odio

1995

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Un grande film di Mathieu Kassovitz sul disagio giovanile, una scarica elettrica che attraversa e cavalcando il brulicante rancore che cova nei sobborghi remoti della capitale francese. Il malcontento, stratificato da decenni di politiche fallimentari, promesse mancate e un’indifferenza statale quasi coloniale, trova la sua deflagrazione in una notte di violenza inaudita. Il film, concepito sulla scia dei reali disordini urbani che incendiarono le banlieues francesi nei primi anni ’90 – in particolare l’uccisione di un giovane da parte della polizia – non si limita a registrarne l’eco, ma ne disseziona le origini e le conseguenze con una lucidità quasi chirurgica.

All'indomani di queste violente proteste, soffocate nel sangue dalla polizia, un trio di amici, piuttosto che due come la tensione suggerirebbe, si ritrova a navigare le macerie psicologiche e materiali di un quartiere in subbuglio. C'è Vinz, l'impulsivo e rabbioso, interpretato con una febbrile intensità da Vincent Cassel – sì, la menzione per Cassel è non solo doverosa ma quasi insufficiente, dato il turbine di emozioni che incarna nel suo personaggio principale, un giovane diviso tra la furia vendicativa e una disperata ricerca di dignità. Al suo fianco, Hubert, il pugile filosofo, il pragmatico costretto a sognare un altrove, e Saïd, l'osservatore cinico e arguto, la coscienza critica del gruppo. Il loro pellegrinaggio attraverso le 24 ore successive agli scontri diventa un’odissea urbana, un inesorabile conto alla rovescia verso un destino incerto, amplificato dal ritrovamento di una pistola perduta dalla polizia, che alimenta il desiderio di vendetta di Vinz e innesca un meccanismo tragico.

La banlieue non è mero sfondo, ma protagonista silenziosa e implacabile, in tutta la sua tensione sociale; è un teatro di una vicenda dai forti connotati metropolitani, ma priva della fascinazione luccicante del centro cittadino. Qui, la fotografia in un bianco e nero crudo, quasi neorealista, non è una scelta estetica nostalgica, bensì etica: depura l'immagine da ogni superficialità, esalta la brutalità delle linee architettoniche e la drammaticità dei volti, conferendo al racconto una universalità senza tempo, quasi fosse un documento storico filmato nel preciso istante in cui si fa storia. Questo espediente stilistico, che evoca l'essenzialità della Nouvelle Vague ma con una virulenza assente nelle sue manifestazioni più borghesi, eleva la narrazione da cronaca a mito urbano.

Nel complesso, un’opera che colpisce lo stomaco andando a rimestare nelle implicazioni sociologiche di emarginazione e disadattamento tipiche della banlieue. Kassovitz non moralizza, ma mostra, con una precisione quasi documentaristica, la perenne condizione di sospensione in cui vivono i suoi personaggi, un limbo sociale dal quale sembra impossibile evadere. Il film è una diagnosi impietosa delle patologie urbane: la disoccupazione endemica, l’assenza di prospettive, la brutalità poliziesca, il razzismo latente e manifesto. Temi che, purtroppo, non hanno perso attualità, rendendo L’Odio un monito perenne sulla fragilità del tessuto sociale.

La banlieue, cioè, come non-luogo nel senso che Marc Augé darebbe al termine: uno spazio di transito, un’intersezione di percorsi più che un focolare di identità. È il crocevia in cui convergono etnie multiformi – il magrebino, il nero, l’ebreo – in una coabitazione forzata che oscilla tra solidarietà di strada e tensioni interne, uomini senza destino, opere incompiute, vite marginalizzate che si dibattono in un labirinto di profonde ingiustizie sociali e tensioni razziali. Eppure, proprio in questo non-luogo, emerge, quasi per paradosso, un potente sentimento collettivo di appartenenza, una fratellanza di strada che supplisce alle carenze istituzionali. Celebre in questo senso la scena in cui il DJ improvvisato spara la musica dalla finestra del suo appartamento, l'hip-hop come lingua franca di una generazione, creando una sorta di coesione effimera attraverso il collante delle note. È un momento di rara poesia, un respiro di tregua nell'asfissia quotidiana, in cui l'arte – sia essa musica o graffiti sui muri – tenta di trascendere la miseria, di riempire il vuoto identitario con un ritmo vibrante, effimero come la bolla di sapone di un'illusoria armonia.

L'uso della musica e del linguaggio, con il gergo vivace e l'arguzia caustica dei dialoghi, eleva il film a vero manifesto culturale di un'epoca. Kassovitz capisce che la voce autentica della banlieue risiede anche nelle sue espressioni artistiche sotterranee, nella sua capacità di generare cultura propria, resistente e resiliente. In questo senso, L’Odio si iscrive in un filone cinematografico che include opere come Do the Right Thing di Spike Lee o Boyz n the Hood di John Singleton, film che hanno dato voce alle minoranze urbane, esplorando la complessità delle loro esperienze in contesti di violenza e discriminazione. Ma Kassovitz lo fa con uno sguardo intrinsecamente francese, radicato nelle specificità post-coloniali e nella retorica repubblicana tradita.

Il film si chiude con una scena di brutalità agghiacciante, un epilogo che non offre catarsi ma solo l'amaro sapore dell'inevitabilità. La famosa frase "C'est l'histoire d'un homme qui tombe d'un immeuble de 50 étages..." risuona come una profezia autoavverante, un countdown della disperazione che culmina nell'ultimo atto di violenza. L’Odio non è un film sulla speranza o sul riscatto individuale, ma sulla perpetua e ciclica natura della violenza ("La haine attire la haine"). È un'opera che è insieme amore per la marginalità, nella sua cruda e disarmante autenticità, e tentativo di trascenderne i limiti, pur riconoscendo la tragica difficoltà di farlo. Un capolavoro imprescindibile, la cui risonanza non si è affievolita, ma al contrario, si è fatta più acuta nel corso degli anni, testimoniando la sua profonda e dolorosa attualità.

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