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L'Orgoglio degli Amberson

1942

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Tratto da un romanzo di Booth Tarkington, The Magnificent Ambersons è la seconda prova registica di Orson Welles alle prese con un violento dissidio con la casa di produzione RKO che arriverà a tagliare il film di oltre 40 minuti rispetto al girato originale (!!!). Quel dissidio non fu una semplice disputa contrattuale, ma un'autentica eviscerazione artistica, un tradimento che ha plasmato non solo la percezione di questo capolavoro ma anche l'intera traiettoria della carriera wellsiana a Hollywood. L'intervento brutale della RKO, che non si limitò a meri tagli ma rimosse sequenze cruciali, ne riscrisse il finale e persino commissionò nuove riprese, trasformò un'elegia monumentale in una ferita aperta, un'opera incompiuta che eppure, miracolosamente, mantiene intatta la sua potenza e il suo fascino. È la storia di un martirio cinematografico, culminata nella leggenda della bobina perduta, del negativo gettato in mare, una parabola tragica che ha reso L'Orgoglio degli Amberson un totem della lotta tra artista e industria.

Nonostante questo un grande film, non poteva essere altrimenti, con un immenso Joseph Cotten, un attore troppo spesso dimenticato ma dalla grande verve recitativa. Cotten, qui nella sua ieratica, quasi scultorea compostezza, incarna non solo il "bravo ragazzo" ferito ma anche il moderno visionario, un simbolo del progresso inesorabile che si scontra con l'immobilità e l'arroganza del vecchio mondo. La sua interpretazione è un esercizio di sottile malinconia e dignità, una controparte ideale al furioso, infantile egoismo di George Minafer Amberson. La sua presenza, così solida eppure così vulnerabile, è uno dei pilastri emotivi di un'opera che pulsa di rimpianto e di occasioni mancate.

La storia è una saga familiare: gli Amberson, ricca e potente famiglia che non riesce a fare fronte al proprio inesorabile declino. Al cuore di questa saga non vi è solo la cronaca di un declino economico o sociale, ma la disamina impietosa della vanità dell'orgoglio, della cecità del privilegio e della dissoluzione di un'era. Tarkington, autore del romanzo premio Pulitzer, aveva saputo cogliere le sfumature di un'America di inizio secolo che si affacciava all'era industriale, e Welles eleva questa narrazione a un affresco epico di proporzioni shakespeariane. L'automobile, simbolo del progresso per Eugene Morgan, è per gli Amberson il veicolo della loro caduta, il rumore assordante che soffoca la melodia della loro presunta grandezza. La loro casa, imponente e sontuosa, diviene progressivamente un mausoleo, un labirinto di ombre e ricordi polverosi, che riflette la claustrofobia emotiva dei suoi abitanti.

Sullo sfondo Eugene Morgan, un brillante giovane, innamorato di Isabel Amberson che si vede messo da parte per un pretendente inetto e insensibile. Isabel, interpretata con eterea bellezza da Dolores Costello, è il fulcro di questo conflitto, la donna i cui desideri repressi e le scelte dettate dal dovere innescano una catena di eventi fatali. La sua figura è un emblema della donna della Belle Époque, intrappolata tra convenzioni sociali e pulsioni personali, condannata a una felicità surrogata che si traduce in profondo dolore per sé e per i suoi cari, specialmente per il figlio George, l'archetipo del "pivello" viziato e arrogante, la cui caduta è tanto inevitabile quanto meritata.

Ma la storia non finirà con quel rifiuto. La narrazione prosegue, ineluttabile come il destino che si abbatte sugli Amberson, mostrando le conseguenze a lungo termine delle decisioni prese e dei pregiudizi coltivati. Il destino non risparmia nessuno, nemmeno la straordinaria zia Fanny Minafer, interpretata da una leggendaria Agnes Moorehead (la cui scena isterica al tavolo della cucina è uno dei picchi recitativi della storia del cinema, degna di un monologo di Tennessee Williams), la spinster acida e frustrata, la cui amarezza è un riflesso doloroso delle opportunità negate e dei sogni infranti, un personaggio che incarna la claustrofobia emotiva della famiglia e la tragicità della sua fine.

Orson Welles ci fa capire quanto grande sia la sua abilità nello scavare nella sfera psicologica di ogni “dramatis persona” coinvolta nell’intreccio narrativo, fino a presentarcela scarnificata, un’anima di vetro da studiare con spietata calma. Questa penetrazione psicologica è resa possibile non solo dalla scrittura e dalla regia ma anche dalla magnificenza visiva e sonora. Welles, con la sua maestria, usa la profondità di campo che aveva sperimentato in Citizen Kane, ma qui la adotta con un'intensità più cupa, quasi operistica. Ogni inquadratura è una tela barocca di ombre e luce (grazie anche alla fotografia di Stanley Cortez), dove il chiaroscuro non è solo un vezzo stilistico ma un linguaggio emotivo, che amplifica la desolazione e l'isolamento dei personaggi, intrappolati nelle magnifiche ma fatiscenti dimore della loro arroganza. Il celebre carrello all'indietro nella casa degli Amberson, che rivela la vastità vuota e l'eleganza decadente, è una metafora visiva della loro inesorabile evaporazione. E poi c'è la sua voce narrante, calda e malinconica, che tesse la tela del tempo e del ricordo, elevando la storia a una dimensione quasi mitologica, un requiem per un'epoca perduta. Nonostante le ferite inflitte dalla produzione, L'Orgoglio degli Amberson rimane una delle più commoventi e tragiche meditazioni sul tempo, sulla memoria e sulla caducità della grandezza, un monumento cinematografico alla genialità soffocata ma mai del tutto spenta di Orson Welles.

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