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L'orribile verità

1937

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Un meccanismo ad orologeria perfetto, oliato non con la precisione fredda di un automa, ma con il calore mercuriale e imprevedibile dell'improvvisazione umana. Questa è la prima, e forse più accurata, definizione de "L'orribile verità" di Leo McCarey, un film che non si limita a definire i contorni della screwball comedy, ma ne costruisce la cattedrale, un luogo sacro di arguzia, tempismo e sublime anarchia coniugale. Sotto la patina di una farsa alto-borghese, pulsante di dialoghi che sfrigolano come champagne versato su una superficie rovente, si cela un trattato quasi filosofico sulla natura performativa dell'amore e sulla necessità del caos per la restaurazione dell'ordine sentimentale.

Per comprendere l'energia quasi inspiegabile che anima la pellicola, bisogna partire dal suo demiurgo, Leo McCarey. A differenza della precisione balistica di un Howard Hawks, che orchestrava le sue commedie come sinfonie di sovrapposizioni verbali, McCarey era un maestro del caos controllato. La leggenda, ampiamente confermata, narra di un set dove la sceneggiatura era più un suggerimento che un dogma. McCarey arrivava spesso senza idee chiare, si sedeva al pianoforte, suonava qualche accordo e poi lasciava che i suoi attori "trovassero" la scena. Questo metodo, che inizialmente terrorizzò Cary Grant al punto da fargli chiedere di essere svincolato dal contratto, si rivelò la chiave alchemica del film. Quella sensazione di spontaneità, quel delizioso vacillare sull'orlo del collasso comico, non è recitata: è il residuo fossile di un processo creativo genuinamente esplorativo. Gli attori non stanno solo interpretando personaggi che non sanno cosa farà l'altro; in molti momenti, non lo sapevano letteralmente neanche loro. Il risultato è una commedia che respira, viva e organica come poche altre nella storia del cinema.

In questo laboratorio di improvvisazione nasce, o meglio, si cristallizza definitivamente, una delle più grandi icone del XX secolo: Cary Grant. Prima de "L'orribile verità", Grant era un attore affascinante, un potenziale divo, ma ancora legato a una certa rigidità da leading man. McCarey vide oltre. Capì che la sua vera forza non risiedeva solo nell'eleganza impeccabile, ma nel cortocircuito tra quella stessa eleganza e una goffaggine fisica quasi infantile, una vulnerabilità che rendeva il suo fascino irresistibile. La performance di Grant è un capolavoro di fisica comica e frustrazione repressa. Ogni suo gesto, dal tentativo fallito di sedersi con disinvoltura a una caduta rovinosa da una sedia, è un pezzo di un puzzle che compone il prototipo dell'eroe romantico moderno: un uomo la cui sicurezza è costantemente minata dall'imprevedibilità della donna che ama e del mondo che lo circonda. Il suo Jerry Warriner non è semplicemente un marito geloso; è un Adone intrappolato in una commedia dell'arte, costretto a improvvisare maschere sempre nuove per riconquistare un palcoscenico che credeva suo.

Ma un dio ha bisogno di una dea, e Irene Dunne è una Giunone della commedia, la vera forza motrice della narrazione. Spesso messa in ombra dalla fama postuma di Grant o di Katharine Hepburn, Dunne è qui semplicemente sfolgorante. La sua Lucy Warriner possiede una gamma comica che spazia dalla sofisticata ironia salottiera alla farsa più sfrenata, spesso all'interno della stessa scena. La sua capacità di mentire con una serafica innocenza, di manipolare ogni situazione con un sorriso disarmante, la rende l'avversaria perfetta per Jerry. La sequenza in cui, per sabotare la nuova relazione del marito, si finge la sua volgare sorella, un'attrice di night-club, è un saggio di recitazione comica che dovrebbe essere studiato in ogni accademia. Non è solo imitazione; è una decostruzione meta-testuale della femminilità, un'esplosione di vitalità che fa a pezzi l'etichetta dell'alta società. Lucy non è una vittima, né una semplice "svitata" come la Susan Vance di Susanna!. È un'architetta del caos, una stratega che usa la farsa come arma per smascherare l'ipocrisia e, in fondo, per verificare la tenuta del proprio amore.

Il film diventa così il paradigma di quella che il filosofo Stanley Cavell avrebbe definito la "commedia del rimatrimonio". In queste opere, il divorzio non è una fine, ma un preludio necessario, un esilio temporaneo dal paradiso coniugale che permette ai protagonisti di riscoprirsi e di rinegoziare i termini della loro unione. Jerry e Lucy devono separarsi per capire quanto siano indispensabili l'uno per l'altra. I loro nuovi partner – il campagnolo e noiosissimo Dan Leeson per lei (un ruolo che consacrò Ralph Bellamy all'archetipo dell'eterno "altro uomo", il cosiddetto "Ralph Bellamy role") e l'ereditiera Barbara Vance per lui – non sono veri rivali, ma semplici catalizzatori. Sono specchi opachi che riflettono, per contrasto, la brillantezza e la perfetta sintonia della coppia originale. L'orribile verità del titolo non è la scoperta di un tradimento, ma la consapevolezza, ben più terrificante e meravigliosa, che la loro identità esiste solo in relazione all'altro. Come Beatrice e Benedetto in Molto rumore per nulla di Shakespeare, il loro campo di battaglia verbale è l'unico terreno su cui il loro amore può fiorire. La guerra di parole e di dispetti è la loro liturgia amorosa.

Tutto questo si svolge in un contesto storico e produttivo ben preciso: l'era del Codice Hays. La censura, che proibiva ogni rappresentazione esplicita della sessualità, agì da straordinario propellente per la creatività dei cineasti. "L'orribile verità" è una masterclass di allusione e subtesto. L'intera tensione erotica tra i due protagonisti, costretti a vivere separati ma inesorabilmente attratti l'uno verso l'altra, culmina in una delle scene finali più ingegnose e deliziosamente piccanti della storia del cinema. Rinchiusi in stanze comunicanti di una locanda di campagna, i due si trovano a fronteggiare una porta che non si chiude e un orologio a cucù che, con maliziosa puntualità, scandisce il tempo che li separa dalla mezzanotte, ora in cui il loro divorzio diventerà definitivo. L'intera sequenza è un balletto di desiderio represso, una metafora geniale del coito interrotto e della riconciliazione imminente. La porta che si apre, l'orologio che fa "cucù", sono sostituti fallici e simboli di un'unione che la morale ufficiale non permette di mostrare, ma che l'intelligenza cinematografica riesce a evocare con una potenza ancora maggiore.

Il film è punteggiato da elementi che trascendono la loro funzione narrativa per diventare icone: il cane Mr. Smith (interpretato dal leggendario Asta), un terrier che non è solo una spalla comica ma un vero e proprio agente del destino, un custode della verità coniugale che nasconde cappelli e smaschera bugie; il derby di Jerry, simbolo della sua dignità maschile costantemente messa in gioco; la musica, usata non solo come commento ma come arma (Lucy che storpia al pianoforte la canzone della rivale). Ogni dettaglio contribuisce a creare un universo coeso, elegante come un interno Art Déco ma fragile come un castello di carte, pronto a crollare al primo soffio di vento della passione.

"L'orribile verità" è quindi molto più di una semplice commedia. È un saggio sulla performance sociale, un'indagine sulla fiducia e sulla gelosia, e una celebrazione dell'idea che il vero amore non sia un porto tranquillo, ma una tempesta perpetua e esilarante. McCarey, Grant e Dunne non si limitano a raccontare una storia; imbottigliano un fulmine, catturano l'essenza stessa dell'attrazione umana, fatta di scintille, ripicche e una fondamentale, irrinunciabile complicità nel gioco della vita. La verità orribile, dopotutto, non è che l'amore finisce, ma che per sopravvivere deve imparare a ballare sull'orlo del precipizio, ridendo.

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