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Luci della Città

1931

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Un’opera di delicato candore in cui lo sguardo disincantato di un grande artista si posa sulle contraddizioni di una Metropoli straniante, sulle differenze di classe, sullo scarto tremendo tra ricchezza e povertà. Questa metropoli, più che un semplice sfondo, è un personaggio in sé: un moloch indifferente e scintillante, simile per la sua alienazione alle visioni espressioniste di città infernali, ma qui filtrata attraverso la lente di un’umanità dolente e marginale. Chaplin persegue il suo ideale estetico di purezza attraverso la figura del suo clochard e coerentemente sceglie di mantenere il muto per il suo film nonostante proprio in quegli anni si stesse affermando il sonoro: una scelta perfettamente aderente ad una poetica minimalista in cui l’elegia e la bellezza del mondo salgono dalle cose più umili, spogliate di ogni inutile orpello.

La decisione di Chaplin di sfidare il progresso tecnologico del sonoro, imposto con fragore dall'avvento del "talkie", non fu solo un atto di ostinazione artistica, ma una dichiarazione programmatica. Mentre studi come la Warner Bros. e la MGM si affrettavano a convertire i loro set e le loro produzioni al nuovo medium, temendo di rimanere obsoleti, Chaplin comprese che la sua arte, fondata sulla pantomima e sull'espressione universale del corpo, avrebbe perso la sua essenza se avesse ceduto al dialogo. Luci della Città, del 1931, arrivò quattro anni dopo Il Cantante di Jazz, ma dimostrò al mondo che il cinema muto, nelle mani di un genio, era tutt'altro che morto. Anzi, Chaplin utilizzò il sonoro in modo diegetico e ingegnoso, non per il dialogo parlato ma per gag sonore (come il gorgoglio del tromba che esce dalla gola di Charlot durante un concerto o il fischio del taxi), sottolineando così il ridicolo o il pathos delle situazioni senza mai tradire la sua lingua visiva. Fu un trionfo di coraggio e lungimiranza, una testimonianza dell'idea che la vera comunicazione non risiede nel rumore, ma nel sentimento.

Un film che trascende i confini della commedia per diventare un poema universale sull'amore, la solidarietà e la speranza. Charlie Chaplin, con la sua sensibilità unica e il suo genio comico, ci regala un film di straordinaria bellezza e profondità, in cui la risata si mescola alla commozione, e la poesia emerge dalle situazioni più semplici e quotidiane. È il culmine della sua arte silenziosa, spesso considerato il suo capolavoro più riuscito, capace di toccare le corde più intime dell'animo umano con una grazia che pochi cineasti hanno mai eguagliato.

Charlot si dibatte tra l’amore per una fioraia cieca e la sua cronica mancanza di mezzi. Questo amore è un faro di purezza in un mondo cinico, un sentimento disinteressato che lo spinge a un eroismo quasi sacro. Charlot si innamora della ragazza e fa di tutto per aiutarla, anche a costo di mettersi nei guai, un percorso costellato di sacrifici e umiliazioni che ne delineano la statura morale. La sua generosità e il suo altruismo lo portano a intrecciare una serie di relazioni con personaggi diversi, come un eccentrico milionario che lo scambia per un amico quando è ubriaco e lo ignora quando è sobrio, e un pugile che lo sfrutta per i suoi scopi. La relazione con il milionario è un brillante espediente narrativo che mette in luce l'ipocrisia sociale e la volubilità delle relazioni umane basate sul profitto o sull'opportunità: l'ubriaco magnanimo che vede in Charlot un fratello perduto si trasforma, da sobrio, in un borghese distaccato e sprezzante, cieco di fronte all'umanità del piccolo vagabondo. La celebre sequenza del combattimento di boxe, una delle più esilaranti e toccanti dell'intera storia del cinema, non è solo una dimostrazione del genio comico di Chaplin, capace di coreografare una danza tra i corpi che sfiora l'assurdo, ma anche il simbolo estremo del suo sacrificio. Ogni pugno incassato, ogni goffo tentativo di schivare, è un passo verso la guarigione di colei che ama, una sorta di Via Crucis circense per la nobile causa.

Chaplin, con la sua mimica inimitabile e la sua capacità di fondere comicità e pathos, crea una serie di situazioni esilaranti e toccanti, che culminano nel finale, in cui la fioraia, finalmente operata alla vista, riconosce Charlot per la prima volta. Questo riconoscimento non è solo visivo, ma profondo e spirituale.

Chaplin critica l'indifferenza e l'ipocrisia della società borghese, che spesso ignora le sofferenze dei più deboli mostrando come le persone emarginate, come Charlot e la fioraia cieca, siano spesso invisibili agli occhi della società. La loro condizione di povertà e di disabilità li rende esclusi dai privilegi e dalle opportunità dei più fortunati. In un'America ancora alle prese con le scosse della Grande Depressione, sebbene il film fosse stato concepito prima del crollo del '29, i temi dell'indigenza e della lotta per la sopravvivenza risuonavano con una crudele attualità. Il regista mette in discussione il concetto stesso di giustizia sociale, mostrando come la legge possa essere applicata in modo discriminatorio e ingiusto. Charlot, ad esempio, viene arrestato ingiustamente e condannato al carcere, mentre il milionario, pur commettendo azioni riprovevoli, rimane impunito. Questa disparità di trattamento, un tema ricorrente nell'opera di Chaplin, non è mai esibita con retorica didascalica, ma con la sottile amarezza di chi osserva le storture del mondo senza perdere la speranza.

Il film offre una critica sociale sottile ma incisiva, che invita a riflettere sulle contraddizioni e le ingiustizie della società. Ma è anche, e soprattutto, un'esplorazione della "visione" in senso lato. La cecità della fioraia è un pretesto narrativo per esplorare le molteplici forme di cecità umana: quella sociale, quella morale, quella emotiva. La ragazza, priva della vista, "vede" in Charlot la sua bontà, la sua premura, la sua essenza, molto prima di poterlo fare con gli occhi. È una metafora potentissima della vera percezione, quella che trascende l'aspetto esteriore e riconosce il cuore delle persone. Chaplin, con la sua sensibilità e il suo genio comico, ci ricorda che la vera felicità non risiede nella ricchezza o nel potere, ma nell'amore, nella solidarietà e nella capacità di vedere la bellezza anche nelle cose più semplici. Il finale, amaro e suadente al tempo stesso, con quel primo piano indimenticabile degli sguardi incrociati, rimane nel cuore dello spettatore come un prezioso macigno di cui sopportare gravità e bellezza, una bellezza cruda e fragile che ci rammenta la potenza ineffabile di un semplice tocco, di un sorriso timido, di un amore capace di trascendere ogni barriera. È la dimostrazione più toccante di come un atto di generosità possa elevare l'anima, e di come, a volte, per vedere davvero, sia necessario prima essere stati ciechi.

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