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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

L'ultimo valzer

1978

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Un testamento, una veglia funebre, un'incoronazione. Chiamare "L'ultimo valzer" di Martin Scorsese un film-concerto è una classificazione tanto accurata quanto definire Moby Dick un manuale di caccia alla balena. È un'operazione di contenimento tassonomico che ne tradisce la natura profonda, la sua ambizione smisurata e il suo status di oggetto cinematografico quasi inspiegabile. Scorsese, qui, non documenta un evento; orchestra una sacra rappresentazione, un epitaffio barocco per un'intera era, mettendo in scena la morte e la trasfigurazione di un'idea di musica, di comunità e, in definitiva, d'America.

Per comprendere l'opera, bisogna prima comprendere il demiurgo. Nel 1976, Scorsese non è un documentarista musicale. È il febbrile cantore dell'asfalto e della colpa, l'autore di Mean Streets e Taxi Driver. È un regista ossessionato dalla tribù, dal rituale, dalla violenza e dalla redenzione impossibile dei suoi personaggi. Il suo approdo a The Band non è casuale. Vede in loro, e soprattutto nel loro carismatico leader e narratore Robbie Robertson, un'altra delle sue gang di strada: una fratellanza forgiata nel fuoco di innumerevoli locali malfamati, unita da un codice non scritto e ora giunta alla resa dei conti. La Winterland Ballroom di San Francisco, nel Giorno del Ringraziamento, non è solo una location; è il ring di Toro Scatenato prima del tempo, la chiesa profana dove si celebra l'ultima messa. Scorsese non si limita a piazzare le telecamere; le usa come pennelli, trasformando il palco in una tela caravaggesca. Ogni musicista è colpito da lame di luce che ne scolpiscono i volti, isolandoli in un buio denso e quasi materico. L'uso del 35mm, affidato a un gotha di direttori della fotografia come Vilmos Zsigmond e László Kovács, strappa l'evento alla cronaca e lo consegna all'epica. Non stiamo guardando un notiziario, stiamo assistendo a un'opera lirica dove il sudore brilla come rugiada sacra e i cavi degli amplificatori sono le vene pulsanti di un organismo morente.

Il film alterna le performance a una serie di interviste che sono il vero motore narrativo e meta-testuale dell'opera. Qui emerge la dialettica fondamentale de "L'ultimo valzer": quella tra mito e realtà, tra la storia ufficiale e la verità non detta che traspare dai volti stanchi. Robbie Robertson, eloquente, affascinante, quasi un produttore esecutivo della propria leggenda, costruisce il racconto di una ritirata strategica e gloriosa. Sedici anni "on the road", dice, sono stati abbastanza. È una narrazione lucida, quasi letteraria. Ma è sufficiente osservare gli altri membri per percepire le crepe in questa facciata. Levon Helm, l'anima sudista e terrosa del gruppo, mastica le parole con una malinconia che rasenta il risentimento. I suoi occhi tradiscono un'usura e una storia diversa, una storia di espropriazione che avrebbe poi raccontato nella sua autobiografia, "This Wheel's on Fire". Rick Danko e Richard Manuel, quest'ultimo con lo sguardo perso di un poeta che ha visto troppo, appaiono come figure tragiche, fantasmi che si aggirano nel loro stesso banchetto funebre. Scorsese, consapevolmente o meno, cattura questa disintegrazione. Il film diventa così un'opera quasi "rashomoniana": la cronaca di una fine raccontata da molteplici punti di vista, anche se uno solo – quello di Robertson – tiene il microfono.

Ma è sul palco che la mitologia prende il volo. L'evento non è solo il concerto d'addio di The Band; è una convocazione degli dei dell'Olimpo rock. Ogni ospite non è una semplice "guest star", ma un capitolo vivente della storia da cui The Band è emersa. Muddy Waters, il patriarca, il Big Bang del blues elettrico, si presenta con la dignità di un re e scatena un "Mannish Boy" tellurico che sembra scuotere le fondamenta del locale. È il padre che torna a reclamare la sua discendenza. Poi arriva Van Morrison, un folletto irlandese indemoniato che in "Caravan" sembra posseduto da uno spirito bacchico, calciando l'aria in una trance estatica prima di collassare fuori scena. Neil Young offre una versione fragile e commovente di "Helpless", con un dettaglio che è ormai leggenda nerd: una vistosa macchia bianca di cocaina nel naso, rimossa in post-produzione con un costosissimo e pionieristico rotoscoping (il famigerato "coke-nail"). Joni Mitchell, eterea e perfetta, canta "Coyote", portando una grazia quasi soprannaturale in quella tana di lupi stanchi.

Ogni performance è un microcosmo. L'assolo di Eric Clapton in "Further On Up the Road" è un duello cavalleresco con Robertson, un passaggio di consegne tra titani della sei corde. Ma il culmine, l'apoteosi, è l'arrivo di Bob Dylan. Il fantasma dell'opera, l'uomo che ha trasformato The Hawks in The Band. La sua apparizione è quella di un messia riluttante, quasi infastidito, che però, una volta sul palco, sprigiona un'energia biblica. La sua "Baby Let Me Follow You Down" è una tempesta, un richiamo a quei giorni elettrici e controversi che forgiarono il loro mito comune. L'apoteosi finale di "I Shall Be Released", con tutti gli ospiti sul palco, assume i contorni di un inno gospel, una preghiera collettiva che non chiede salvezza, ma semplicemente congedo. Una liberazione, appunto.

Contestualizzare "L'ultimo valzer" significa capire la sua posizione di confine. Siamo nel 1976. L'utopia di Woodstock si è dissolta da tempo nell'incubo di Altamont e nelle disillusioni del decennio. L'America sta ancora leccandosi le ferite del Vietnam e del Watergate. Il rock si sta trasformando: da un lato la furia iconoclasta del punk che sta per esplodere, dall'altro la patina sintetica della disco music e il gigantismo corporate del rock da stadio. The Band, con la sua estetica di radici, di Americana quasi fittizia e senza tempo, con le sue armonie vocali che suonano come il legno di una vecchia veranda, rappresenta un mondo che sta svanendo. "L'ultimo valzer" non è un funerale per un gruppo, ma per un suono, un'etica. È l'ultimo bagliore di un'autenticità che, paradossalmente, viene celebrata con un artificio cinematografico sontuoso e controllatissimo. È come se Scorsese avesse preso la prosa polverosa di Faulkner e l'avesse riscritta con la magniloquenza di Visconti.

Il genio del film risiede in questa sua intrinseca contraddizione: è una celebrazione dell'autenticità costruita in modo del tutto artificiale. È un documento che mente spudoratamente per dire una verità più grande. La verità di una fine. La verità che ogni comunità, anche la più solida, è destinata a fratturarsi. L'ultima immagine del film, dopo i titoli di coda, non è un musicista o una folla esultante. È una ripresa vuota del palco del Winterland, ormai deserto, che Scorsese filma in studio, non potendolo fare la notte del concerto. Un'illusione finale. Un trucco di prestigio che svela la natura stessa del cinema e del rock 'n' roll: creare mondi, costruire miti e poi, con la stessa abilità, farli sparire in una nuvola di fumo, lasciandoci soli con l'eco della musica e la struggente consapevolezza che, come recita la didascalia finale, "This film should be played loud!". Un imperativo che è anche un epitaffio.

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