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L'Uomo che volle farsi Re

1975

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Due soldati di Sua Maestà nel 1888, dopo burrascose vicende giudiziarie, abbandonano le armi e approdano in Kafiristan, un paese dove nessun occidentale aveva mai messo piede dai tempi di Alessandro Magno. Questa premessa, che affonda le radici nella narrativa avventurosa di fine Ottocento, ci introduce immediatamente in un mondo al confine tra mito e realtà, dove l'ardore dell'Impero Britannico si scontra con l'ignoto primordiale. L'ignominia delle "burrascose vicende giudiziarie" – in realtà una licenza poetica per l'audacia e la spregiudicatezza che caratterizzavano molti agenti dell'Impero in terre lontane – li spinge non verso la redenzione, ma verso un'ulteriore, scellerata impresa. Il Kafiristan, una terra remota e quasi leggendaria all'epoca, descritta da Kipling come un'enclave isolata e selvaggia, custode di segreti ancestrali e ricchezze indicibili, diventa il palcoscenico per un'audace quanto fatale ambizione. Uno dei due, Daniel Dravot, diverrà una divinità suo malgrado, una bizzarra involuzione del destino che i due avventurieri, con la loro inestinguibile fame di potere e prestigio, decidono di sfruttare a loro vantaggio. L'onore inatteso, un mantello di santità gettato casualmente su un mercenario, si trasforma nel pretesto per prendere in mano le sorti del Paese, piegandolo ai propri voleri e, soprattutto, mettendo le mani sulle sue immense ricchezze. Qui si annida il cuore del dramma: l'irresistibile richiamo dell'oro e l'intossicante sapore del potere, visti attraverso la lente di una civiltà che si crede superiore.

Sean Connery e Michael Caine sono i protagonisti di questa storia in cui umano e divino coesistono e imparano a conoscersi. Le loro interpretazioni di Daniel Dravot e Peachy Carnehan sono a dir poco magistrali, un trionfo di affiatamento e contrasto che eleva il film ben oltre i confini del semplice racconto d'avventura. Connery, con la sua stazza imponente e il suo carisma regale, incarna l'ambizione smodata e la cieca fiducia nel proprio destino, il soldato che si crede un dio. Caine, con la sua astuzia pragmatica e la sua sottile malinconia, è la voce della ragione e della cautela, il navigato truffatore che pur si lascia sedurre dal sogno, ma non ne dimentica la fragilità. Due personaggi che costituiscono le due parti complementari di un unico uomo, nel film come nel racconto di Kipling da cui è tratto: si ha infatti l’impressione che i due amici rappresentino due facce della stessa medaglia e le loro parti siano spesso interscambiabili, quasi a sottolineare come l'uno senza l'altro sia incompleto, o destinato a soccombere. La loro amicizia, intrisa di lealtà e disillusione, è il vero motore emotivo della narrazione, un legame fraterno messo alla prova dal miraggio del potere e dalla hybris.

È anche una sorta di indagine da parte di Kipling sullo scontro tra cultura occidentale e cultura orientale, ma che in mano a John Huston si trasforma in una riflessione ancora più pungente e complessa. Il film esplora le dinamiche del colonialismo non con una condanna semplicistica, bensì con una lucidità che ne evidenzia tanto l'audacia quanto l'intrinseca follia. Dravot e Carnehan non sono eroi o villain in senso stretto; sono figli del loro tempo, portatori di una mentalità imperiale che vedeva il mondo come un parco giochi da conquistare e "civilizzare". La loro ascesa al potere nel Kafiristan non è solo una truffa, ma una parodia inquietante del "fardello dell'uomo bianco", un'illusione di superiorità destinata a scontrarsi con la forza ineluttabile della tradizione e della fede locale. Il contrasto tra la logica razionale e calcolatrice degli inglesi e la spiritualità arcana dei kafiri crea un conflitto tematico che risuona con la complessità di opere come Lawrence d'Arabia, dove l'ambizione individuale si misura con la vastità e l'indifferenza di paesaggi esotici e culture millenarie. È un racconto di grandezza e caduta, un monito sulla fragilità del potere auto-attribuito.

John Huston partorì questo film dopo anni di gestazione con una pre-produzione durata ben 25 anni. Già dai primi anni ’50 infatti era sua intenzione girare il film, e il progetto sembrava destinato a diventare la sua ossessione, il suo Fitzcarraldo personale, una sfida titanica che rispecchiava la sua stessa vita avventurosa e il suo spirito indomito. Erano stati scelti come coppia di protagonisti Humphrey Bogart e Clark Gable, poi Burt Lancaster e Kirk Douglas, e persino Paul Newman e Robert Redford. L'evoluzione del casting rifletteva non solo i cambiamenti nell'industria cinematografica, ma anche una ricerca costante della combinazione perfetta che potesse incarnare la dualità dei personaggi kiplinghiani. La scelta finale di Connery e Caine si rivelò un colpo di genio: due attori all'apice della loro carriera, con una chimica autentica e un'intelligenza interpretativa capace di rendere le sfumature di due figure così complesse, a cavallo tra il buffone e il tragico. La lunga attesa ha permesso a Huston di distillare l'essenza del racconto, infondendogli una saggezza e una malinconia che solo l'esperienza di una carriera leggendaria avrebbe potuto conferire.

Un film di avventura, di quelli da vedere in un solo fiato, in cui fotografia e ritmo narrativo si intrecciano in un’opera imponente e incantevole. La grande cura per la fotografia di Oswald Morris fa risaltare un lussureggiante ambiente colto nella sua più spontanea postura, catturando la magnificenza aspra e incontaminata del Marocco (che ha egregiamente simulato il Kafiristan). Ogni inquadratura è una tela dipinta con luce naturale, capace di evocare sia la grandiosità dei paesaggi montuosi che la claustrofobia delle caverne dorate. Il deserto, le montagne, i villaggi isolati, tutto contribuisce a creare un senso di immensità e isolamento, rendendo il viaggio dei protagonisti ancora più epico e allo stesso tempo minuscolo di fronte alla natura selvaggia. Il montaggio, sapientemente ritmato, trascina lo spettatore in un turbine di eventi, alternando momenti di tensione mozzafiato a sequenze di più placida introspezione. La colonna sonora di Maurice Jarre, con i suoi toni esotici e le sue melodie evocative, avvolge la narrazione, amplificando il senso di meraviglia e di incombente tragedia. L'uomo che volle farsi re non è solo un film d'avventura, ma un'opera d'arte completa, un capolavoro che trascende il genere, offrendo una profonda meditazione sulla natura umana, sull'ambizione, sull'amicizia e sulla caducità di ogni impero, sia esso quello di Alessandro, quello britannico o quello effimero di due soldati smaniosi.

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