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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

L'uomo del banco dei pegni

1965

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Un frammento di vetro conficcato nella memoria collettiva del cinema. Ecco cos’è L’uomo del banco dei pegni. Non un film, ma una ferita che si rifiuta di cicatrizzare, un’opera che nel 1964 squarciò il velo di compiacenza del cinema americano, costringendolo a guardare in un abisso che fino ad allora aveva solo lambito con deferenza e una certa distanza di sicurezza. Sidney Lumet, un regista che ha sempre inteso la macchina da presa come uno strumento di vivisezione morale, orchestra qui il suo requiem più spietato e disperato, un trattato sulla sopravvivenza come forma di morte posticipata.

Il suo epicentro è Sol Nazerman, interpretato da Rod Steiger in una delle performance più monumentali e implosive mai catturate su pellicola. Nazerman non è un sopravvissuto; è un fantasma che infesta la propria esistenza. Ex professore universitario tedesco, la cui famiglia è stata sterminata nei campi di concentramento, ora gestisce un banco dei pegni in una Harlem brulicante e disperata, una giungla d’asfalto che funge da specchio deformante al suo deserto interiore. Il suo negozio non è un luogo di commercio, ma una cattedrale del disincanto, un limbo dove gli oggetti, carichi delle speranze fallite dei loro proprietari, vengono scambiati per pochi spiccioli. Sol è il loro custode e sommo sacerdote, un contabile dell'oblio che prezza la miseria altrui con la stessa apatia con cui accoglie il sorgere del sole. Steiger lavora per sottrazione, costruendo un personaggio la cui corazza non è fatta di rabbia, ma di un vuoto assoluto. I suoi occhi sono spenti, la sua voce un monotono ronzio, il suo corpo un involucro svuotato di ogni linfa vitale. È la rappresentazione fisica di un’anima in rigor mortis.

La genialità di Lumet, e del suo montatore Ralph Rosenblum, risiede nell'aver trovato un linguaggio cinematografico per l'inesprimibile: il trauma. Il film è punteggiato da quelli che la critica ha definito "flash-cuts", ma il termine è riduttivo. Non sono semplici flashback esplicativi. Sono cortocircuiti sensoriali, schegge di memoria involontaria che lacerano il tessuto del presente. Il braccio di una donna sul metrò diventa il braccio della moglie su un treno diretto al campo. Le sbarre di una scala antincendio si sovrappongono alle recinzioni di filo spinato. Sono assalti sensoriali, innescati da stimoli banali, che traducono sullo schermo il meccanismo del disturbo da stress post-traumatico con decenni di anticipo sulla sua codificazione clinica e cinematografica. In questo, Lumet dialoga direttamente con la nouvelle vague europea, in particolare con il cinema di Alain Resnais. Se in Hiroshima mon amour la memoria era un flusso poetico e tormentato che legava due amanti e due tragedie storiche, ne L'uomo del banco dei pegni essa è un pugnale, un'aggressione brutale e frammentaria che impedisce ogni forma di legame. Il passato non è un paese straniero; è un terrorista che tiene in ostaggio il presente.

Il contesto socio-culturale è altrettanto fondamentale. Harlem non è solo uno sfondo esotico, ma un personaggio pulsante. Lumet, con la fotografia granulosa e quasi documentaristica di Boris Kaufman (fratello di Dziga Vertov, e non è un caso), cattura un'umanità ai margini che orbita attorno al negozio di Sol: prostitute, piccoli criminali, sognatori sconfitti. La colonna sonora di Quincy Jones, un jazz vibrante e nervoso, crea un contrappunto stridente e magnifico con il silenzio interiore del protagonista. Il mondo esterno è vivo, caotico, disperato ma vitale; il mondo interiore di Sol è un cimitero. Questa dicotomia è la fornace del film. Sol disprezza i suoi clienti, vedendo nella loro disperazione una eco degradata della sua tragedia, che egli considera unica e incommensurabile. Il suo razzismo latente, la sua crudeltà calcolata, sono meccanismi di difesa per mantenere una distanza siderale da un'umanità che non può più sentire come propria. Il film, in questo, è di una modernità sconcertante, esplorando la complessa e sgradevole verità che il dolore estremo non nobilita necessariamente, ma può anche abbruttire e disumanizzare la vittima stessa.

È impossibile non leggere in Sol Nazerman l'incarnazione dell'Uomo del Sottosuolo di Dostoevskij, un essere alienato che trova nella propria sofferenza l'unica, perversa affermazione della propria esistenza. O, forse, è uno degli "uomini vuoti" di T.S. Eliot, un'ombra in una terra desolata, incapace di connettere "l'idea e la realtà". Il suo regno è fatto di transazioni, di numeri, di profitto: l'unica logica comprensibile dopo che la logica della storia e della morale è implosa nel fango dei campi. Il denaro, per Sol, non è potere, ma anestetico. È l'unica cosa quantificabile in un universo che si è rivelato qualitativamente privo di senso.

Questo approccio spietato alla materia rese L'uomo del banco dei pegni un'opera di rottura. Fu uno dei primi film americani a mostrare il seno nudo di un'attrice (in un contesto di violenza e umiliazione, non erotico), sfidando apertamente il Codice Hays e contribuendo in modo decisivo al suo smantellamento. La Production Code Administration negò il sigillo, ma la Motion Picture Association of America, riconoscendo l'importanza artistica del film, concesse un'eccezione, segnando una svolta epocale verso un cinema più maturo e complesso. Lumet non usa la nudità per scioccare, ma per mostrare una verità essenziale del trauma di Sol: il corpo della sua amante è solo un pezzo di carne, un oggetto, un ricordo della totale spersonalizzazione subita da sua moglie. Ogni intimità è impossibile perché ogni corpo è già stato profanato dalla memoria.

Il climax del film, con il sacrificio quasi cristologico del suo giovane e volenteroso assistente, Jesus Ortiz, potrebbe apparire schematico sulla carta. Un uomo di nome Jesus che muore per redimere i peccati (o meglio, l'apatia) di un ebreo. Eppure, nelle mani di Lumet, diventa un finale di una potenza devastante. La mano di Sol, che egli stesso impala su un fuso per le ricevute nel tentativo disperato di sentire qualcosa, qualsiasi cosa, è una stigmate laica, il segno fisico di una crepa che si apre finalmente nella sua fortezza di ghiaccio. L'urlo muto che ne consegue non è un urlo di liberazione. È il suono terrificante di un'anima che, dopo vent'anni di ibernazione, inizia a scongelarsi, e il primo contatto con il sentimento è un dolore insopportabile. Il film non offre la catarsi consolatoria della guarigione, ma la diagnosi agghiacciante di una malattia. Non ci dice che Sol Nazerman guarirà; ci dice che, forse, ha appena ricominciato a sentire il male. E nel mondo che lui ha conosciuto, sentire è la più grande delle maledizioni. L'ultima inquadratura, con Sol che si allontana nella folla anonima di New York, non è una promessa di speranza, ma la constatazione di un esilio perpetuo: non più esiliato dai sentimenti, ma esiliato nel dolore, finalmente costretto a portarne il peso senza più scudi. Un capolavoro gelido, necessario e indimenticabile.

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