L'uomo invisibile
1933
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Regista
Una voce. Tutto comincia con una voce. Ancor prima dell'immagine, prima del terrore che serpeggia nel villaggio di Iping, c'è la qualità timbrica di un'interpretazione che trascende il visibile. Quando il Dottor Jack Griffin, avvolto in bende come una mummia profanata e occultato da occhiali neri che negano ogni sguardo, entra nella locanda "The Lion's Head", non è la sua figura a incutere timore, ma il suono che emana. È la partitura vocale di Claude Rains, al suo debutto nel cinema sonoro americano, a orchestrare la discesa agli inferi. Una voce che da principio è solo irritata, imperiosa, quella di un genio disturbato nel suo lavoro, ma che progressivamente si slaccia, si scompone, si gonfia di risate sgranate e megalomani, diventando il puro significante della follia demiurgica.
James Whale, regista di squisita sensibilità teatrale e sardonico umorismo, comprese che il cuore del romanzo di H.G. Wells non risiedeva tanto nell'espediente fantascientifico, quanto nel suo potenziale come metafora della dissoluzione dell'identità. Wells, socialista fabiano e utopista scientifico, aveva scritto un apologo sulla responsabilità sociale della scienza, un monito contro il potere che corrompe. Whale, invece, ne estrae un dramma squisitamente psicologico, quasi un'opera da camera che esplode in un grand-guignol anarchico. Il suo Uomo Invisibile non è un riformatore sociale deragliato; è un esteta del caos, un nichilista che trova nell'anonimato la licenza per scatenare il proprio Io più primordiale e sadico. In questo, il film si allontana dalla speculazione sociologica di Wells per abbracciare un territorio più vicino a Dostoevskij, esplorando l'idea che, rimossa la maschera sociale (in questo caso, letteralmente il corpo), l'uomo sia libero di diventare il "superuomo" nietzschiano o, più probabilmente, un demone.
La genialità di Whale risiede nel suo perfetto controllo del tono. Il film è un balletto macabro che oscilla con grazia funerea tra il terrore genuino e la farsa più grottesca. I paesani di Iping, con le loro facce rubizze e le loro reazioni esagerate, sembrano usciti da una tela di Bruegel il Vecchio catapultata nella campagna inglese. La locandiera, interpretata dalla stridula e indimenticabile Una O'Connor, è un contrappunto comico costante all'orrore invisibile che si annida nelle sue stanze. Questo equilibrio precario è un marchio di fabbrica di Whale, già evidente in Frankenstein e portato alla sua massima espressione ne La moglie di Frankenstein. Egli sa che l'orrore più efficace non è quello monolitico, ma quello che emerge dall'infrangersi della normalità, quello che fa ridere un istante prima di agghiacciare il sangue. La scena in cui Griffin, nudo e invisibile, danza per la stanza cantando "Here We Go Gathering Nuts in May" prima di commettere un omicidio, è la sintesi perfetta di questo approccio: la filastrocca infantile come preludio alla violenza più spietata.
E poi, c'è la magia, l'alchimia tecnica che rende il tutto possibile. In un'era pre-digitale, gli effetti speciali di John P. Fulton sono a dir poco stregoneria. Il processo, che prevedeva che Claude Rains indossasse un completo di velluto nero integrale recitando su un set completamente nero, per poi sovrapporre l'immagine a quella dello sfondo girato separatamente, era di una complessità estenuante. Eppure, il risultato è ancora oggi sbalorditivo. La fluidità con cui i vestiti si sfilano da un corpo inesistente, il sigaro che fluttua a mezz'aria, le impronte che appaiono dal nulla sulla neve: non sono semplici trucchi, ma la grammatica visiva del film. L'invisibilità non è solo un concetto, è una presenza fisica, un vuoto attivo che deforma la realtà circostante. Questo artigianato meticoloso, questa illusione ottica costruita fotogramma per fotogramma, conferisce al film una matericità e un fascino che nessuna CGI moderna potrà mai replicare.
Siamo nel 1933, in quel limbo dorato e permissivo del cinema americano noto come Pre-Code. Solo un anno dopo, il Codice Hays avrebbe imposto la sua morsa moralizzatrice, rendendo impensabile un protagonista di tale empia e gioiosa malvagità. L'Uomo Invisibile di Whale è un antieroe assoluto, un terrorista che non cerca redenzione né compassione. Gode nel deragliare treni, nel rapinare banche, nel terrorizzare innocenti. La sua ambizione è un "regno del terrore", e lo dichiara con una risata che è puro distillato di hybris. Non è il mostro tragico e incompreso alla Karloff; Griffin è pienamente consapevole delle sue azioni e le abbraccia con un fervore quasi artistico. La sua condizione non è una maledizione, ma un potenziamento, la chiave che apre la porta a una libertà assoluta e terrificante. È la realizzazione cinematografica dell'anello di Gige, il mitico artefatto platonico che, garantendo l'invisibilità, mette alla prova la vera natura morale di un individuo. E la natura di Griffin, scopriamo, è quella di un tiranno.
Sotto la superficie del film di mostri, pulsa una corrente sotterranea di profonda tristezza. È la tragedia di un Prometeo che, rubato il fuoco della conoscenza (la formula della monocaina che sbianca i tessuti), ne viene consumato. C'è un'eco faustiana nel suo patto con la scienza, un accordo che gli conferisce un potere sovrumano al prezzo della sua stessa umanità. La sua fidanzata Flora (una luminosa Gloria Stuart, che decenni dopo ritroveremo come l'anziana Rose in Titanic) e il suo mentore, il Dr. Cranley, rappresentano il mondo che ha abbandonato: l'amore, la ragione, la comunità. Ma Griffin è ormai oltre. La sua invisibilità non è solo fisica, è diventata esistenziale. Ha reciso ogni legame, si è trasformato in pura volontà di potenza, un ego disincarnato che non può più essere contenuto.
Il finale è di una bellezza struggente. Dopo l'inseguimento nel fienile, colpito e morente, Griffin viene adagiato su un letto. E mentre la vita lo abbandona, il processo si inverte. Lentamente, nel silenzio quasi religioso della stanza, l'invisibilità svanisce. Prima affiora il teschio, come in una radiografia macabra, poi i muscoli, i nervi, e infine la pelle. Riappare il volto di Claude Rains, un volto giovane, sofferente, umano. La mostruosità scompare per lasciare posto alla pietà. La macchina da presa di Whale indugia su quel viso tornato visibile, e in quello sguardo spento leggiamo l'intera parabola: la storia di un uomo che ha sacrificato il proprio volto per conquistare il mondo, finendo per perdere entrambi. In quel momento, L'uomo invisibile cessa di essere un film dell'orrore e ascende al rango di tragedia classica, un monito senza tempo su come, nel tentativo di diventare più di un uomo, si rischi di diventare molto, molto meno.
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