L'Uomo che non c'era
2001
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Registi
Dopo lo splendido Crocevia della Morte degli esordi i fratelli Coen ritornano al noir e lo fanno a modo loro: con uno stile raffinato e fortemente ispirato ai fecondi anni cinquanta, un decennio che, sotto la patina di prosperità e conformismo, nascondeva già i semi di una profonda inquietudine esistenziale. Non è un ritorno, il loro, meramente nostalgico, ma un’operazione di decostruzione e reinterpretazione di un genere che ha sempre affascinato la loro estetica.
Ne esce un’opera patinata, ma di una patinatura che evoca il lustro malato delle pellicole d'epoca, con citazioni e omaggi al filone hard boiled che vanno ben oltre la superficie stilistica. È un vero e proprio colloquio con giganti del calibro di James M. Cain o Raymond Chandler, ma filtrato attraverso la lente idiosincratica e profondamente pessimista dei Coen. La fotografia mozzafiato, curata dal maestro Roger Deakins – qui probabilmente al vertice della sua arte monocromatica – eleva ogni inquadratura a quadro d'autore, conferendo al film una dimensione quasi pittorica, dove luci e ombre non sono solo elementi visivi, ma veri e propri personaggi muti, che narrano la desolazione interiore e l'inesorabilità del destino.
Il ricorso al bianco e nero, dunque, non è che un naturale complemento di questo progetto artistico, un pilastro strutturale che supera la mera scelta estetica per divenire cifra stilistica e concettuale. Esso infonde inquietudine e bellezza al tessuto narrativo, trasportando lo spettatore in un'atmosfera sospesa, quasi onirica, dove la morale si fa ambigua e la verità si nasconde in un labirinto di chiaroscuri. Le gamme di grigio, infinite e sfumate, rispecchiano la scala di grigi morali che definisce l'esistenza di Ed Crane, protagonista di questa tragica e bizzarra epopea. È un bianco e nero che riprende la lezione espressionista, mutuata dal noir classico degli anni '40, ma la trasfigura, la depura, conferendole una lucentezza che, anziché rassicurare, acuisce il senso di alienazione.
La storia è quella di Ed Crane, triste barbiere con il perenne sospetto di essere tradito dalla moglie, Doris, interpretata da una Frances McDormand che dona al personaggio una disperata ordinarietà. Ed incarna l'archetipo dell'anti-eroe coeniano, un uomo passivo, quasi trasparente, che sembra scivolare attraverso la vita senza lasciare impronte. La sua apatia non è indolenza, ma una forma di difesa esistenziale, la risposta di un'anima svuotata a un mondo che gli sembra intrinsecamente assurdo. Questo "uomo che non c'era" si muove in un mondo che lo ignora, o lo travolge, e la sua mancanza di iniziativa lo rende non tanto un agente del proprio destino, quanto una pedina in una partita cosmica il cui esito è già scritto.
Per sfuggire a questi tetri pensieri, o forse per confermare la propria invisibilità persino a se stesso, si getterà in un'iniziativa sconsiderata, ma per farlo estorcerà una somma di denaro all’amante della moglie, un uomo d'affari dall'aria melliflua e la coscienza elastica. La spirale di eventi che segue è un classico esempio della meccanica narrativa dei Coen: una singola, seppur grave, deviazione dalla norma innesca una reazione a catena inarrestabile. Ed ucciderà l'amante in un raptus, un momento di violenza che, lungi dall'essere catartico, lo precipita in un abisso di conseguenze ancora più oscure. Un vortice di nere conseguenze stravolgerà per sempre la sua vita, facendolo precipitare in un'odissea di equivoci, inganni e colpi di scena che sembrano orchestrati da un beffardo destino. È un film tetro e conturbante, con una filigrana di amaro cinismo che avvolge ogni svolta narrativa, un'inquietante danza macabra sul palcoscenico dell'esistenza umana. La narrazione procede con una linearità quasi matematica, eppure permeata da deviazioni surreali, come l'inspiegabile, e brillantemente coeniana, incursione di un'ipotetica invasione aliena che si rivela essere una truffa, ma che aggiunge un ulteriore strato di assurdo e paranoia alla già fragile realtà di Ed. Questo bizzarro subplot, apparentemente slegato, in realtà rafforza il tema centrale del film: la disperata ricerca di senso in un universo che si rifiuta di fornirne.
Il rarefatto disincanto di Ed quando affronta la sedia elettrica fa della sequenza finale una "cult scene" da archiviare e custodire nel pantheon delle conclusioni cinematografiche più memorabili. L’uomo attraversa un lungo corridoio scortato da due poliziotti, il suo viso è disteso, quasi sereno, una maschera di rassegnazione che non è arresa, ma quasi trascendenza. La performance di Billy Bob Thornton raggiunge qui il suo culmine, veicolando una calma che è più profonda della disperazione, un'accettazione della propria, intrinseca, non-esistenza. Il corridoio, simbolo di passaggio e inevitabilità, è illuminato da lampade a muro che gettano una luce sghemba e simmetrica, creando un gioco di prospettive che sembra dilatare il tempo e lo spazio. Ed lo percorre ripensando alla sua vita, e chiedendosi, con una voce interiore che è la quintessenza del suo distacco, se dovesse rimpiangere qualcosa. Il suo monologo interiore è un'eco di tanti anti-eroi del noir, ma con una peculiare nota di fatalismo cosmico che lo rende unico.
Una porta improvvisamente si apre rivelando una stanza di un bianco abbacinante: tutto è bianco, non si distinguono neppure i confini tra muri, soffitto e pavimento. È uno spazio atemporale, quasi platonico, dove la materia si dissolve e il nulla si manifesta nella sua forma più pura e accecante. È un "non-luogo" che evoca tanto l'idea di un aldilà asettico quanto quella di un definitivo annullamento, un vuoto che riflette l'anima stessa di Ed. Un fascio accecante, quasi divino nella sua intensità, è interrotto solo dalla lugubre sedia elettrica, al centro, che attende il suo ospite. Non c'è dramma teatrale, non c'è implorazione, solo la fredda, geometrica, inevitabilità. Questa immagine finale è un colpo di genio: il candore quasi mistico di uno spazio che precede il giudizio o l'oblio, che eleva la morte a un'esperienza quasi trascendentale, ma priva di ogni consolazione. È il finale perfetto per una parabola sull'uomo che non c'era, e che, alla fine, scompare in un'ultima, abbagliante, assenza. Un inno all'assurdo e al nichilismo che solo i Coen potevano concepire con tale eleganza e potenza visiva.
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