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Magnolia

1999

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Paul Thomas Anderson al suo terzo film (dopo Sydney e il bellissimo Boogie Nights) appare come un professionista di consumato mestiere, un regista che, in un arco di tempo sorprendentemente breve, ha saputo forgiare una voce autoriale distinta, riconoscibile tanto nell'audacia formale quanto nella profondità tematica. In Magnolia mette in scena una monumentale vicenda composta da numerose sottotracce più o meno collegate tra loro secondo il modello che avevamo già visto e apprezzato in America Oggi di Altman. Ma mentre Altman realizza la sua scansione narrativa plasmandola sui racconti di Carver, con quella sua peculiare disamina quasi antropologica della condizione umana americana, Anderson compie la medesima operazione partendo dal nulla, ideando e sceneggiando una storia partizionata in molteplici subdirectories, come un prisma rifratto in molteplici raggi che si intrecciano dando corpo ad una vicenda che appare integra nella sua molteplicità, un unico granitico corpo narrativo. Questa scelta audace non è solo un omaggio al maestro, ma una vera e propria evoluzione: Anderson non si limita a osservare, ma scava nelle piaghe emotive dei suoi personaggi, cercando una catarsi, una forma di grazia in un mondo che sembra averla smarrita. La stessa genesi del film è intrisa di questa urgenza creativa, nata da un periodo di profonda riflessione personale del regista.

Il tessuto narrativo è ulteriormente nobilitato da grandi prove attoriali quali quelle di Tom Cruise, che qui si cimenta in un ruolo diametralmente opposto alla sua consolidata immagine di eroe impeccabile, dimostrando una vulnerabilità e una ferocia inaspettate; di Julianne Moore, capace di incarnare una disperazione palpabile e straziante; e di Philip Seymour Hoffman, qui in una delle sue prime apparizioni di rilievo, già con quel carisma discreto e quella sottile profondità che lo avrebbero reso un gigante. La loro capacità di dare vita a queste anime tormentate eleva il film ben oltre la semplice sperimentazione formale.

Magnolia è dunque un’opera costellata da una galleria di personaggi collegati l’uno con l’altro, un affresco corale che risuona con l'eco di destini incrociati e, spesso, con il peso di un passato che non smette di esercitare la sua forza centripeta.

Frank T.J. Mackey è un telepredicatore che insegna agli uomini a scrollarsi di dosso il complesso d’inferiorità nei confronti della donna e ad esercitare il proprio innato carisma per conquistarla. La sua figura è un emblema dell'America da spettacolo, dove anche la virilità diventa una performance da vendere. Dietro la facciata del machismo ostentato si cela una vicenda famigliare dolorosa con il padre che ha ripudiato il figlio e se n’è andato di casa abbandonandolo. Ora che Frank è stato contattato dall’infermiere del padre morente per un ultimo commiato si trova a dover affrontare i demoni del suo passato, un confronto inevitabile con le radici della sua stessa, distorta identità.

La matrigna di Frank e attuale compagna del padre, Linda Partridge, è devastata dal senso di colpa per aver tradito il marito, vive una profonda depressione che la spinge nell'abisso della tossicodipendenza, scoprendo di amare il marito solo quando questi è sul letto di morte. La sua è una tragedia del rimpianto, l'amara rivelazione di un affetto sopito che emerge solo di fronte all'irrevocabilità della perdita.

Donnie Smith è un ex bambino prodigio di una trasmissione di successo “What do Kids Know?”, e dopo aver vinto un’ingente somma di denaro è finito nell’oblio. È tormentato dalla solitudine e dal senso di sconfitta, imprigionato in un limbo di gloria passata, e per far colpo su un barista è sul punto di affrontare un’operazione ai denti, in un patetico tentativo di ricominciare che testimonia la sua profonda insicurezza e fragilità.

Stanley Spector è un ragazzino oppresso da un padre che lo obbliga a partecipare a “What do Kids Know?” per denaro, si sente irrimediabilmente triste e solo: è un piccolo Donnie ante litteram, una vittima predestinata di quel perverso circolo di sfruttamento e pressione mediatica che sembra ereditarsi di generazione in generazione.

Earl Partridge è un vecchio leone della TV, presentatore di What do Kids Know e padre di Frank, malato terminale di cancro scoprirà sul letto di morte di amare Frank, il figlio abbandonato, e la sua prima moglie concludendo amaramente di aver sprecato la sua vita facendo del male alle persone che più amava. La sua è la consapevolezza tragica di una vita dedicata al successo e non all'amore, un epilogo amaro che chiude un cerchio di rimpianti.

Jim Kurring poliziotto divorziato divorato dalla solitudine e da un senso del dovere macroscopico incontra Claudia, una tossicodipendente che cercherà di aiutare per trovare una propria redenzione. La loro è forse l'unica barlume di speranza in questo universo di disperazione, una fragile ma autentica connessione che suggerisce una possibilità di salvezza attraverso l'accettazione e l'empatia.

Questo concerto di personaggi, ciascuno una nota dissonante in una sinfonia di dolore, viene interconnesso attraverso tre registri: la sofferenza che è un fattore comune, che lega ogni anima in una condizione universale; la conoscenza diretta o indiretta attraverso le vicende passate o presenti, un intricato schema di relazioni e segreti celati; e, infine, un’incredibile pioggia di rane che entra nella storia di ciascuno di loro e ne segna lo sviluppo. Quest'ultimo elemento, il più audace e discusso del film, trascende il realismo narrativo per toccare corde bibliche e simboliche, un richiamo alle piaghe d'Egitto, un evento inspiegabile che funge da cataclisma purificatore o, forse, semplicemente da reset caotico che costringe tutti i personaggi a confrontarsi con l'assurdità dell'esistenza e la propria vulnerabilità. Non è un deus ex machina nel senso classico, risolvendo i drammi con facilità, ma piuttosto un chaos ex machina che scuote le fondamenta e permette una (seppur minima) apertura verso il cambiamento.

Magnolia dunque è un nastro di Moebius, la narrazione è un loop del dolore dove i personaggi si trovano a dover condividere le proprie sofferenze con persone che a questo male sono collegate, in un ciclo senza fine che è, al contempo, un sentiero verso una (spesso dolorosa) rivelazione. L'uso magistrale della musica, in particolare le canzoni di Aimee Mann, non è un mero sottofondo, ma un elemento narrativo essenziale, una sorta di coro greco moderno che esprime l'interiorità dei personaggi, culminando nella commovente sequenza in cui ognuno intona "Wise Up", un momento di empatia collettiva che trascende le individuali sofferenze.

Diverse le scene da rimarcare, ognuna un gioiello di intensità drammatica: dalla furia devastante di Linda Partridge nella farmacia, esplosione di una psiche al collasso, al silenzioso ma potente atto di ribellione di Stanley Spector, che rifiuta di rispondere alle domande sul palco, fino all'improbabile incontro tra Jim e Claudia, tenero e disperato al tempo stesso. Forse la sequenza che raggiunge la più alta vetta emotiva è il drammatico monologo di Frank sul letto di morte del padre, dove Frank gli rinfaccia con rabbia repressa tutte le sue mancanze per poi abbandonarsi ad un pianto catartico e al perdono. In quel pianto si condensa il tema centrale del film: la ricerca, spesso vana ma sempre necessaria, di una connessione autentica e di una qualche forma di redenzione, anche a un passo dall'ultimo, definitivo addio.

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