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Mai raramente a volte sempre

2020

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In un'epoca di narrazioni urlate e di cinema-manifesto che sbandiera le proprie tesi, Mai raramente a volte sempre (2020) di Eliza Hittman si impone con la forza sovversiva del silenzio. È un'opera di un rigore quasi documentaristico, un neorealismo dell'anima che segue la sua protagonista non per giudicarla o usarla come portavoce, ma semplicemente per starle accanto, registrando ogni ostacolo, ogni umiliazione e ogni impercettibile gesto di solidarietà. Il risultato è un film devastante, un pugno allo stomaco sferrato con la delicatezza di una carezza, che si rivela essere uno degli atti d'accusa più potenti e taglienti contro l'ipocrisia sistemica che governa il corpo delle donne. Il film ci immerge in una Pennsylvania rurale, post-industriale, un paesaggio dell'anima prima ancora che geografico. Una sorta di Limbo che diviene periferia dell'esistenza nel film, una condizione sospesa dove la protagonista si dibatte e cerca di disperatamente una via d'uscita. È la banlieu della società americana, un luogo di orizzonti bassi e di opportunità scarse, dove il futuro sembra una versione sbiadita del presente. Qui vive Autumn (una straordinaria e laconica Sidney Flanigan), un'adolescente che scopre una gravidanza indesiderata.

Hittman è davverp magistrale nel delineare un ambiente di prevaricazione maschile casuale e pervasiva. Non ci sono villain espliciti, ma un'oppressione costante e sottile: il coetaneo che la umilia durante un'esibizione canora, il manager del supermercato dove lavora che le bacia le mani con viscida familiarità, un padre apatico e una figura maschile responsabile della sua condizione che rimane un fantasma evocato solo dal dolore nei suoi occhi. In questo contesto, la sua gravidanza non è un incidente, ma la conseguenza quasi matematica di un ambiente che non offre né protezione né via di fuga. L'unica ancora di salvezza è la cugina e collega Skylar (Talia Ryder). La loro solidarietà è il cuore pulsante del film: un legame fatto di sguardi, di gesti minimi (il furto dei soldi per il viaggio, la mano stretta nella mano durante i momenti più duri), un'alleanza silenziosa contro un mondo ostile.

Il viaggio di Autumn e Skylar da una cittadina della Pennsylvania a New York City non è solo un viaggio fisico, ma un'odissea attraverso una geografia dell'ostilità, un percorso a ostacoli progettato per scoraggiare, umiliare e punire. Il film espone con precisione chirurgica le implicazioni sociali per una giovane donna che cerca di esercitare un suo diritto. Il primo muro che incontra è quello della disinformazione istituzionalizzata. Si reca in un "Crisis Pregnancy Center", un centro pro-vita mascherato da clinica, dove viene ingannata con propaganda anti-abortista, un test di gravidanza e un'ecografia usata come arma emotiva. È la prima tappa di un sistema che non vuole aiutarla, ma rieducarla. Di fronte alle leggi della Pennsylvania che richiedono il consenso dei genitori, l'unica opzione è la fuga verso New York. Qui, la burocrazia medica, sebbene professionale e non giudicante, si rivela un'altra forma di labirinto: i costi, i tempi di attesa, la scoperta di essere più avanti nella gravidanza del previsto, la necessità di una procedura più complessa.

La scena che dà il titolo al film è un capolavoro di cinema e di empatia. Un'assistente sociale di Planned Parenthood sottopone Autumn a un questionario sulla sua vita personale e sessuale. La camera rimane fissa sul suo volto per interminabili minuti, mentre le sue risposte ("mai", "raramente", "a volte", "sempre") svelano un abisso di traumi subiti senza che nulla venga mai esplicitato. In quello sguardo, in quelle lacrime silenziose, c'è tutta la violenza di un mondo che l'ha lasciata sola.

Mai raramente a volte sempre documenta le conseguenze di un'ideologia, senza quasi mai mostrarne i fautori. Per analizzare la rappresentazione cinematografica del "pensiero prevaricatore" che vuole negare diritti in nome di una fede usata come scudo per il cinismo, dobbiamo guardare ad altre opere che ne hanno esplorato le radici e le manifestazioni. Questo pensiero non è un'esclusiva della fede cattolica, ma di ogni fondamentalismo patriarcale che vede nel controllo del corpo femminile la sua affermazione di potere. Il cinema lo ha raccontato in modi diversi. Vengono in mente The Magdalene Sisters (2002) di Peter Mullan e Citizen Ruth (1996) di Alexander Payne, entrambi a loro modo, e con i rispettivi canoni linguistici, atti d'accusa feroci contro il muro della prevaricazione sociale e religiosa.

L'opera della Hittman intraprende una via diversa, più quieta ma altrettanto radicale. Non ci mostra i predicatori o i politici. Ci mostra la ricevuta dei loro sermoni e delle loro leggi: una valigia pesante, una notte in una stazione della metropolitana, il volto di una ragazza che deve rispondere "sempre" alla domanda se un partner l'abbia mai costretta a un rapporto. La sua forza sta nel documentare la vita, non nell'urlare contro l'ideologia, rendendo la sua critica ancora più inappellabile. È un film necessario, un silenzioso atto di resistenza che ci ricorda come, dietro ogni dibattito astratto, ci sia sempre un corpo, una storia, una vita.

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