Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Manchester by the Sea

2016

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Un monolite di dolore si erge al centro del cinema americano del nuovo millennio, e ha il volto scavato, quasi spettrale, di Casey Affleck. "Manchester by the Sea" di Kenneth Lonergan non è un film sul lutto; è il lutto stesso, distillato in forma cinematografica, un’opera che rifiuta con ostinazione quasi teologica la consolazione catartica su cui si fonda il 99% dei drammi hollywoodiani. Se il cinema è, per sua natura, movimento – di immagini, di personaggi, di narrazioni che procedono da un punto A a un punto B – il capolavoro di Lonergan è un'anomalia quasi statica, il ritratto di un'immobilità dell'anima. Un uomo intrappolato nell'ambra del suo peggior giorno, per sempre.

Il protagonista, Lee Chandler, non è un personaggio in viaggio, un character on a journey. È un buco nero emotivo, un centro di gravità collassato che assorbe la luce senza restituirla. Vive a Boston una vita di metodica e punitiva auto-reclusione, facendo il tuttofare, svuotando gabinetti e sopportando le lamentele degli inquilini con la rassegnazione di un monaco penitente. Non è un eroe tragico in attesa di redenzione; è il fantasma di un uomo che ha già vissuto la propria tragedia e ora infesta i margini della propria esistenza. La sua condizione esistenziale richiama alla mente non tanto un eroe cinematografico, quanto un personaggio letterario: Bartleby, lo scrivano di Melville. Lee, come Bartleby, "preferirebbe di no". Preferirebbe non tornare a Manchester. Preferirebbe non diventare il tutore del nipote. Preferirebbe, soprattutto, non sentire, non ricordare, non essere. La sua apatia non è pigrizia, ma un meccanismo di sopravvivenza portato al suo estremo, disperato parossismo.

La regia di Lonergan, che proviene dal teatro e possiede una sensibilità quasi sismografica per le micro-fratture del dialogo umano, orchestra una narrazione che mima lo stato psicologico del suo protagonista. Il film procede per strappi, per cortocircuiti temporali. I flashback non sono le classiche, rassicuranti finestre sul passato in tinte sépia. Sono intrusioni violente, attacchi di panico narrativi che squarciano il presente senza preavviso, come una sirena d'ambulanza nel silenzio della notte. Vediamo Lee nel presente, un uomo svuotato, e un attimo dopo lo vediamo nel passato, un padre di famiglia vitale e cazzone, pieno di una vita che ora sembra appartenere a un'altra persona. Loner-gan non ci mostra il "prima" per spiegare il "dopo"; ci costringe a vivere la simultaneità di questi due stati, a percepire il passato non come un ricordo, ma come una ferita perennemente aperta, un arto fantasma che duole più di quello reale. È una tecnica che disorienta e devasta, perché ci nega la distanza di sicurezza emotiva che il cinema solitamente ci concede.

La stessa Manchester-by-the-Sea, la cittadina del Massachusetts che dà il titolo al film, trascende il ruolo di semplice ambientazione per diventare una vera e propria geografia dell'anima, una mappa fisica del trauma di Lee. Lonergan la filma con un realismo quasi documentaristico, catturando il grigiore del cielo invernale, il freddo umido che si attacca alle ossa, il chiacchiericcio pettegolo di una piccola comunità dove tutti sanno tutto. Per Lee, tornare a Manchester non è un ritorno a casa; è rientrare sulla scena del crimine, un crimine di cui è stato vittima, testimone e, nella sua mente, unico, imperdonabile colpevole. Ogni strada, ogni bar, ogni volto è un memento mori. Il paesaggio visivo del film, con le sue barche da pesca ormeggiate e le case di legno battute dal vento, evoca una certa tradizione pittorica americana, quella di Edward Hopper. Come nei quadri di Hopper, i personaggi di Lonergan sono spesso soli anche quando sono in compagnia, incorniciati da spazi che ne sottolineano l'isolamento e l'incomunicabilità. Lee Chandler è l'archetipo dell'uomo hopperiano, seduto al bancone di un bar non per socializzare, ma per erigere un muro di silenzio e alcol tra sé e il mondo.

Il genio di Lonergan, tuttavia, risiede nell'aver compreso che una storia di dolore così assoluto sarebbe insostenibile senza un contrappunto. E il contrappunto è la vita stessa, nella sua forma più testarda, goffa e inarrestabile: il nipote adolescente Patrick (un Lucas Hedges di sbalorditiva naturalezza). Mentre Lee è congelato nel tempo, Patrick è l'epitome del movimento: ha due ragazze, suona in una band, si preoccupa del motore della barca e chiede con insistenza cosa ci sia per cena. Le sue preoccupazioni, così banalmente adolescenziali, creano una frizione tragicomica con la paralisi esistenziale dello zio. Le loro conversazioni sono capolavori di realismo sgraziato, piene di pause imbarazzanti, di argomenti elusi, di un affetto che non sa come esprimersi. Il film è disseminato di un umorismo nero e inaspettato che non serve a smorzare la tragedia, ma a renderla, se possibile, ancora più vera. Perché la vita non si ferma per il nostro dolore; continua, con la sua stupida, meravigliosa, irritante routine.

In questo contesto, la scena forse più rivelatrice, la chiave di volta dell'intero edificio emotivo del film, è quella alla stazione di polizia. Dopo la rivelazione dell'incidente, lo spettatore, condizionato da decenni di cinema, si aspetta l'interrogatorio, l'accusa, il dramma giudiziario. Invece, i poliziotti, che conoscono Lee, lo trattano con una compassione quasi surreale, dicendogli che può andare. È in quel momento che Lee, sconfitto persino dalla mancanza di una punizione esterna, cerca la propria, afferrando la pistola di un agente. La scena è un saggio di meta-cinema: Lonergan nega al suo personaggio (e a noi) la facile via d'uscita del castigo, costringendolo a confrontarsi con una pena infinitamente più pesante: dover continuare a vivere. Non c'è un "cattivo" da sconfiggere, non c'è un sistema da abbattere. C'è solo l'insensatezza di un errore, la casualità della tragedia e il peso insopportabile della sua conseguenza.

Il confronto finale tra Lee e la sua ex-moglie Randi (una Michelle Williams che in pochi minuti di screen time scolpisce un'eternità di rimpianto e amore spezzato) è un altro momento che si inscrive a fuoco nella storia del cinema. Per strada, in pieno giorno, due persone distrutte tentano di articolare l'inarticolabile. Lei, tra le lacrime, cerca una forma di assoluzione condivisa. Lui, con la voce rotta, riesce solo a mormorare. È un dialogo che è un anti-dialogo, il suono di due anime che si scontrano contro il muro invalicabile di ciò che è stato.

E alla fine, non c'è nessuna epifania sulla cima della montagna. Nessuna stretta di mano catartica al tramonto. C'è solo una delle ammissioni più oneste e strazianti mai pronunciate su un grande schermo. Parlando della possibilità di restare a Manchester, Lee guarda il nipote e dice: "I can't beat it". Non posso superarlo. Non posso sconfiggerlo. In queste tre parole risiede tutta la radicale, sovversiva potenza di "Manchester by the Sea". È un film che osa dire che non tutte le ferite guariscono. Che alcuni dolori non si metabolizzano, ma diventano parte di noi, come un organo interno, come il colore degli occhi. Non offre redenzione, non offre speranza a buon mercato. Offre qualcosa di molto più raro e prezioso: la verità. Una verità gelida, scomoda e assolutamente indimenticabile, che eleva un piccolo dramma del New England a tragedia universale, silenziosa e perfetta.

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