Manhattan
1979
Vota questo film
Media: 0.00 / 5
(0 voti)
Regista
Woody Allen riscrive il codice dell’amore in chiave metropolitana con una delicata narrazione impreziosita da un levigato bianco e nero. Questa scelta estetica non è meramente stilistica; è una dichiarazione programmatica che eleva Manhattan da semplice sfondo a personaggio tangibile, quasi mitologico, un palcoscenico per le nevrosi intellettuali e le afflizioni sentimentali della borghesia newyorkese. Il lucido cromatismo del bianco e nero, in un'epoca in cui il colore era la norma, evoca un’immediata risonanza con il classicismo cinematografico, con i fasti di un’Hollywood d’antan, ma anche con la sobria eleganza del neorealismo o le suggestioni visive del film noir, intriso di un’inquietudine sottotraccia che permea le dinamiche relazionali.
Ne risulta un film che sfiora i margini della commedia e del diario intimista scorrendo via come un unico possente brano poetico. Non si tratta di una commedia romantica nel senso convenzionale, bensì di un’anatomia agrodolce delle complessità affettive contemporanee, un’immersione profonda nelle ansie esistenziali e nelle auto-mistificazioni che definiscono i protagonisti. Il suo ritmo cadenzato, quasi musicale, scandito dai dialoghi serrati e dalle passeggiate contemplative per le strade iconiche, lo rende un’esperienza quasi sinestetica.
La storia è quella di Isaac, quarantaduenne sceneggiatore TV, che ha appena divorziato da Jill. La sua ex moglie sta scrivendo un libro di memorie con particolari imbarazzanti riguardo alla loro vita privata, un gesto che non solo esaspera la sua già fragile autostima, ma solleva interrogativi sulla natura della privacy e sulla mercificazione delle esperienze personali nell'era moderna. Isaac nel frattempo tenta di rifarsi una vita con una diciassettenne, Tracy (Mariel Hemingway), una relazione che, seppur intrisa di una dolcezza inaspettata, è costantemente minata dal suo intellettualismo patologico e dalla sua insicurezza cronica, in un perpetuo dilemma morale che lo condanna a una ricerca irrisolta di un amore "adulto" e "intellettuale". Ma è l'ingresso di Mary Wilke (Diane Keaton), amante del suo migliore amico Yale (Michael Murphy), a gettare Isaac in un labirinto di passioni proibite e conversazioni al vetriolo, tra ironia tagliente e pretese intellettuali che mascherano un'evidente confusione sentimentale. La relazione a quattro tra Isaac, Tracy, Mary e Yale, un intricato valzer di tradimenti e lealtà incerte, diventa lo specchio di una società che confonde l'analisi con l'azione, l'idealizzazione con il sentimento.
Un lungo canto all’amore perduto e alla felicità latente. L'amore è qui un concetto inafferrabile, una promessa costantemente elusa dall'auto-sabotaggio e da un'idealizzazione irrealizzabile. È un’opera pervasa da quell’amaro cinismo intriso d’ironia che solo Allen sa infondere, e ciò nonostante un film intimamente lirico. Questa peculiare fusione di cinismo e lirismo è la quintessenza del suo stile, una capacità unica di scovare la commedia nella tragedia e la poesia nella banalità quotidiana. Il film non offre risposte facili, ma si immerge nella complessità delle relazioni umane con una sincerità disarmante, sebbene velata da un'auto-ironia salvifica. L'intellettualismo di Isaac, la sua tendenza a filosofeggiare su ogni aspetto della vita, finisce per essere al contempo la sua croce e la sua salvezza, un modo per difendersi dalla vulnerabilità pur desiderandola ardentemente.
Tante le scene memorabili, così come le battute che sono entrate nell'immaginario collettivo, ma per quanto ci riguarda l’incipit del film è qualcosa di meraviglioso. Non è solo un’apertura, è una dichiarazione d'intenti, un microcosmo che racchiude l'intera anima dell'opera. Mentre scorrono immagini di Manhattan ammantate in un raffinatissimo bianco e nero, si fanno largo le note della Rapsodia in Blu di George Gershwin, un inno orchestrale alla grandezza e alla frenesia della metropoli, un’esplosione di suono che si fonde perfettamente con l'imponenza delle immagini. La scelta di Gershwin non è casuale: evoca un'epoca d'oro, una romanticizzazione del passato americano, e in qualche modo anticipa l'idealizzazione che Isaac riserva alla città. Frammiste alla musica, le parole di Isaac, lette con il suo inconfondibile tono di voce, creano un contrappunto geniale: “Capitolo primo. “Adorava New York. La idolatrava smisuratamente…” No, è meglio “la mitizzava smisuratamente”, ecco. “Per lui, in qualunque stagione, questa era ancora una città che esisteva in bianco e nero e pulsava dei grandi motivi di George Gershwin…” No, fammi cominciare da capo… capitolo primo. “Era troppo romantico riguardo a Manhattan, come lo era riguardo a tutto il resto: trovava vigore nel febbrile andirivieni della folla e del traffico. Per lui New York significava belle donne, tipi in gamba che apparivano rotti a qualsiasi navigazione…” Questo auto-correzione, questa insicurezza narrativa, questo tentativo incessante di trovare la parola perfetta per descrivere un amore idealizzato per la città, non solo rivela il carattere ossessivo e nevrotico di Isaac, ma funge anche da metafora della stessa lotta artistica, della difficoltà di catturare l'essenza della vita in parole. È un prologo che è al tempo stesso un ritratto del protagonista, una dichiarazione d'amore alla città e un saggio sull'arte della scrittura, un gioco metalinguistico che invita lo spettatore a riflettere sulla natura della narrazione e sulla costruzione della realtà. Manhattan non è solo un film; è un'ode, una confessione, un monumento cinematografico all'amore e alla vita, visti attraverso la lente inconfondibile di un genio della nevrosi.
Attori Principali
Paese
Galleria










Commenti
Loading comments...