Mare Dentro
2004
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Regista
Un film che sa emozionare per la sua delicata poetica, per una visione soggettiva della disabilità di un uomo che non può non turbare schiudendone l’oceanica sofferenza, grazie anche ad una regia impalpabile quale quella di Amenábar, e che infine riesce a commuovere per la grande interpretazione di un Javier Bardem in stato di grazia. Non è solo la narrazione di una tragedia, ma un'immersione nell'anima di chi la vive, un'esplorazione che elude le trappole del pietismo per abbracciare la complessità dell'esistenza. La mano di Amenábar, in questo, è sublime: quasi invisibile, si limita a guidare lo sguardo, lasciando che la profondità emotiva emerga dalla verità dei personaggi e dalla cruda, eppure sempre dignitosa, rappresentazione di una condizione estrema. È una regia che non giudica, ma accoglie, che non spettacolarizza il dolore ma lo rende tangibile, quasi respirabile, attraverso un'estetica visiva di rara eleganza e un uso sapiente del silenzio e della luce. Bardem, dal canto suo, non si limita a impersonare, ma incarna Ramón Sampedro, fondendo la propria fisicità con l'immobilità del personaggio in un tour de force attoriale che va ben oltre la mimesi, raggiungendo vette di empatia e comprensione raramente viste sullo schermo. Ogni minima espressione, ogni guizzo negli occhi, ogni inflessione vocale diviene veicolo di un universo interiore sconfinato, prigioniero di un corpo, eppure capace di una libertà spirituale disarmante.
Mare Dentro è la preziosa testimonianza di un uomo e della sua sofferenza che diviene un abisso poetico, un malinconico controcanto alle meraviglie della vita e all’infinita tensione verso queste bellezze. In un’epoca dominata dalla frenesia e dall’imperativo di una produttività ininterrotta, il film di Amenábar emerge come un’oasi di riflessione, un invito a contemplare il valore intrinseco dell'esistenza anche quando questa è gravata da un peso insostenibile. Non si tratta di una celebrazione della sofferenza, quanto piuttosto di una lucida ricognizione dei confini tra la vita e la morte, tra la libertà di scegliere e la condanna all'immobilità. È un saggio cinematografico sull'autodeterminazione, intriso di una dignità che eleva il dibattito etico al di sopra delle polemiche sterili, ponendo al centro l’individuo e il suo diritto inalienabile a decidere del proprio destino. Il film, in questo senso, si allinea a quella tradizione artistica e letteraria che, da Leopardi a Camus, ha scandagliato l'assurdità dell'esistenza e la ricerca di un senso anche nel nonsenso, senza però mai cedere al nichilismo, ma trovando nella poetica stessa il suo riscatto.
Un film che fa dell’uomo, dei suoi desideri, della sua ineludibile attitudine alla vita un’incantevole elegia. La storia è quella di Ramon, tetraplegico da oltre vent’anni a causa di un tuffo in mare. Ma l'aspetto più straordinario della sua narrazione non risiede tanto nel resoconto dei fatti, quanto nel modo in cui Amenábar riesce a trasfigurare la biografia di Ramón Sampedro – figura reale la cui battaglia per il diritto a una morte dignitosa scosse le fondamenta della Spagna e non solo – in una parabola universale sulla condizione umana. La sua non è una storia di pura rassegnazione, bensì l’odissea di uno spirito che, pur immobilizzato, non ha mai cessato di viaggiare, di amare, di sognare. La scelta di non indulgere in flashback didascalici sulla vita precedente di Ramon, se non attraverso frammenti onirici, rafforza l'idea che la sua vera esistenza si sia trasferita altrove, in quella dimensione interiore che il cinema, con la sua capacità evocativa, può rendere palpabile.
La vita di Ramon è scandita da piccoli avvenimenti che lo sfiorano e lo colpiscono come il rumore del mare, il colore del cielo, il fragore dei fulmini, scorci di un azzurro che si porta dentro come un poeta consumato. La sua stanza, più che una prigione, si trasforma in un osservatorio privilegiato sull'universo, un microcosmo da cui Ramon distilla la sua personalissima visione del mondo, filtrata attraverso il prisma di una sensibilità acutissima. In un parallelo suggestivo con opere come Lo Scafandro e la Farfalla di Julian Schnabel, dove il protagonista, anch'egli immobilizzato, comunica attraverso il battito di una palpebra, Mare Dentro ci immerge nella profondità abissale di una mente che, pur confinata, rimane l'unico vero spazio di libertà. Ramon vorrebbe morire e cerca nell’eutanasia la soluzione finale alla sua immane sofferenza. Questa richiesta, lungi dall'essere un atto di disperazione, è presentata come l'estrema espressione della sua volontà, un gesto di coerenza con la propria filosofia di vita, un atto di autodeterminazione che si scontra frontalmente con le convenzioni sociali, religiose e legali. Il film non si limita a esporre il dilemma etico, ma lo anima attraverso le figure che ruotano attorno a Ramon: l'avvocatessa Julia, che si batte per i suoi diritti, e Rosa, la donna che si innamora di lui e tenta di convincerlo che la vita, in qualsiasi forma, merita di essere vissuta. Sono voci contrastanti che riflettono la complessità di un dibattito che ancora oggi lacera le coscienze, ma che il film gestisce con una delicatezza e un'onestà intellettuale rare, evitando facili manicheismi.
Alcune scene restano memorabili come il volo di Ramon dalla finestra aperta, passando radente su boschi, vallate e montagne, sulle note di “Nessun Dorma”, un sogno ad occhi aperti che si infila sotto la pelle, ed è palpabile attraverso quel volo la sofferenza di un uomo costretto ad una crudele segregazione corporea, e tuttavia libero di librarsi con la mente e con l’anima. Questa sequenza, che da sola varrebbe l'intera visione del film, è un capolavoro di estetica e significato, un esempio cristallino di come il cinema possa trascendere la realtà per esprimere la più intima verità dell'animo umano. L'aria che gli accarezza il volto, l'immensità del paesaggio sotto di lui, l'ascesa lirica della voce di Pavarotti: tutto concorre a creare un momento di pura catarsi, un inno alla libertà dello spirito che annulla, seppur brevemente, la tirannia del corpo. È un'immagine che si imprime nella memoria, un potente monito a non confondere la vita con la mera esistenza fisica, ma a riconoscerla nella capacità di sognare, di amare, di immaginare. I versi di Ramon sono, in questo senso, lo specchio di uno spirito indomito costretto alla cattività ma ancora rigonfio d’amore: “Il tuo sguardo il mio sguardo, come un’eco che va ripetendo, senza parole: più dentro, più dentro, fino al di là del tutto, attraverso il sangue e il midollo. Però sempre mi sveglio, mentre sempre io voglio essere morto, perché io con la mia bocca resti sempre dentro la rete dei tuoi capelli.”. In queste parole, intrise di un lirismo quasi antico, risuona il desiderio insopprimibile di una connessione profonda, di un'intimità che vada oltre il corporeo, attestando la persistenza dell'amore e della passione anche di fronte all'ineluttabilità del limite. Un film che non si limita a raccontare una storia, ma ne crea una dimensione poetica che perdura a lungo dopo la visione, spingendo lo spettatore a confrontarsi con i propri concetti di vita, libertà e dignità.
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