Mary Poppins
1964
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Regista
Un velo di perfezione quasi irritante avvolge Mary Poppins. È un artefatto cinematografico così levigato, così impeccabilmente costruito nel suo smalto zuccherino, da rischiare di essere percepito come un mero pezzo di confetteria per l'infanzia, un carillon di porcellana la cui unica funzione è rassicurare. Eppure, a guardarlo con l'occhio di chi disseziona i meccanismi narrativi e le risonanze culturali, il film di Robert Stevenson, sotto l'egida demiurgica di Walt Disney, si rivela essere una delle più complesse e sovversive allegorie mai contrabbandate sotto le spoglie di un musical per famiglie. La sua inclusione nel canone non deriva dalla sua popolarità, ma dalla sua densità quasi teologica, dalla sua capacità di operare su piani di lettura multipli con la destrezza di un prestigiatore.
L'errore più comune è considerare Mary Poppins (un'immacolata Julie Andrews, al suo debutto cinematografico dopo lo "scippo" di My Fair Lady) una semplice tata magica. Lei non è umana. È una forza della natura, un'anomalia ontologica, un agente del caos cosmico mascherato da impeccabile istitutrice eduardiana. Il suo arrivo, portato dal Vento dell'Est, non è una risposta a un annuncio di lavoro, ma l'intervento di un'entità quasi divina in un sistema bloccato, in stasi. La famiglia Banks non è semplicemente infelice; è un microcosmo della repressione capitalista e patriarcale dell'Inghilterra edoardiana, un paradigma di ordine sterile dove ogni emozione è subordinata al profitto e alla rispettabilità. George Banks, il padre, non è il cattivo del film; è la sua vittima più illustre, un uomo la cui anima è stata ipotecata alla Dawes, Tomes, Mousely, Grubbs Fidelity Fiduciary Bank. Il vero antagonista è un'idea: la tirannia della precisione, l'ossessione per l'ordine, la mercificazione del tempo e degli affetti.
In questo, Mary Poppins si rivela essere un'opera profondamente radicata nel suo tempo di produzione, gli anni '60, pur essendo ambientata nel 1910. È una critica, ammantata di nostalgia, alla società dei consumi e all'alienazione dell'uomo-impiegato che stava raggiungendo il suo apice nell'America del dopoguerra. La liberazione dei bambini Banks è solo il preludio alla vera missione di Mary Poppins: la deprogrammazione e la salvezza di George. Per farlo, non usa la logica o la persuasione, ma l'irrazionale, l'assurdo. Apre il vaso di Pandora della fantasia non per intrattenere, ma per curare. La sequenza del "Jolly Holiday", un'incursione in un dipinto a gessetto, è un capolavoro di surrealismo pop. Tecnicamente, è una vetta dell'epoca, ottenuta tramite il complesso processo al sodio (il cosiddetto "yellow screen", superiore al più noto "blue screen" per l'assenza di aloni bluastri), che permise un'integrazione tra live-action e animazione mai vista prima. Ma artisticamente, è un viaggio nella psiche, un'immersione in un paesaggio che obbedisce a regole oniriche, non dissimile da un quadro di Magritte o da un'allucinazione controllata. I pinguini camerieri, i cavalli di una giostra che si liberano per partecipare a un gran premio, sono simboli di un mondo dove l'immaginazione non è un passatempo, ma una forza primigenia in grado di sovvertire la realtà.
Il film opera attraverso una serie di dualismi hegeliani. Mary Poppins, con la sua precisione quasi militare ("Sput-spot!"), rappresenta un ordine superiore che si manifesta attraverso il caos, una sintesi tra disciplina e anarchia. Il suo contraltare terreno è Bert (un Dick Van Dyke la cui energia cinetica fa perdonare uno degli accenti cockney più improbabili della storia del cinema), l'artista di strada, l'uomo orchestra, lo spazzacamino. Bert è un moderno sciamano, un trickster che vive ai margini della società ma ne comprende il cuore più di chiunque altro. È il coro greco della vicenda, colui che può vedere la magia perché non è accecato dalla rigidità delle convenzioni sociali. La sequenza del ballo sui tetti, "Step in Time", è un'esplosione di energia proletaria, una danza tribale e liberatoria che si contrappone frontalmente alla rigidità marmorea della City londinese. È la vitalità della classe operaia che danza letteralmente sopra le teste della borghesia addormentata.
La partitura dei fratelli Sherman non è un semplice corollario di canzoni orecchiabili; è il motore teologico del film. Ogni brano è una tesi filosofica. "A Spoonful of Sugar" non è un invito alla dolcezza, ma un manifesto pragmatista sulla percezione: il lavoro non cambia, ma può cambiare il nostro approccio ad esso, trasformando il dovere in gioco. "Supercalifragilisticexpialidocious" è un atto di terrorismo linguistico, una parola-mantra che demolisce la logica del linguaggio convenzionale per celebrare il potere del suono puro, del nonsense come veicolo di gioia. E poi c'è "Feed the Birds", la canzone preferita di Walt Disney stesso. Inserita con la perentorietà di un memento mori, questa ballata malinconica sulla vecchia mendicante davanti alla Cattedrale di St. Paul è il cuore oscuro e pulsante del film. È un appello alla carità, alla compassione, all'investimento emotivo ("Tuppence a bag") in un mondo ossessionato dall'investimento finanziario. È il momento in cui il film smette di sorridere e ci fissa dritti negli occhi, chiedendoci quale sia il vero valore delle cose. La bancarotta emotiva di Mr. Banks inizia quando rifiuta di concedere i due penny al figlio per questa causa "inutile".
La meta-narrazione che circonda il film è altrettanto affascinante. La nota e aspra battaglia tra Walt Disney e l'autrice P.L. Travers è l'eziologia stessa della peculiare alchimia dell'opera. Disney voleva lo zucchero; Travers, il mistero e l'austerità della sua Mary Poppins letteraria, una figura più enigmatica e a tratti spaventosa. Il film che vediamo è il risultato di questa tensione, un campo di battaglia creativo dove l'ottimismo americano di Disney ha levigato, ma non del tutto cancellato, l'arcana stranezza britannica della fonte. Questa frizione genera una profondità inaspettata. La Mary Poppins del film è un compromesso geniale: mantiene un'aura di distacco, di imperscrutabile alterità ("Praticamente perfetta sotto ogni aspetto" non è una frase vanitosa, ma una constatazione oggettiva della propria natura non-umana), pur prestandosi al gioco disneyano.
In ultima analisi, Mary Poppins agisce come un Bodhisattva. Raggiunge un luogo di sofferenza, guida i suoi abitanti verso l'illuminazione (la riscoperta del valore del gioco, della famiglia, dell'immaginazione), e una volta che la sua missione è compiuta, scompare. Non c'è un addio strappalacrime, solo la constatazione che il suo lavoro è finito. Il vento è cambiato. La famiglia Banks è guarita, l'ordine patriarcale è stato sovvertito e ricostruito su nuove basi emotive (l'aquilone, rattoppato con i suoi annunci di lavoro, diventa il simbolo della nuova armonia). Mary Poppins non è una figura materna, è un catalizzatore. Non offre amore, ma gli strumenti per trovarlo. Mary Poppins non è quindi un film sull'arrivo di una tata, ma sulla sua necessaria partenza. È una lezione profonda e meravigliosamente confezionata sul fatto che la vera magia non risiede in poteri soprannaturali, ma nella capacità umana di cambiare prospettiva, di trovare la poesia nell'ordinario e di capire che a volte, per riparare un sistema, bisogna prima farlo a pezzi con una canzone, un ballo e una parola senza senso.
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