Incontriamoci a Saint Louis
1944
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Regista
Un soffio leggero pervade quest’opera rendendola fresca e soave, una commedia musicale che passa sullo schermo come un rapido sogno, un’evocazione quasi proustiana di un tempo che fu, filtrato attraverso il prisma benevolo della nostalgia. Non è solo un intrattenimento effimero, ma un vero e proprio atto d’amore verso un’America idealizzata, quella Belle Époque che precede lo scoppio delle grandi disillusioni del ventesimo secolo, trasformando ogni inquadratura in una cartolina vivente, intrisa di una luce calda e rassicurante.
Vincente Minnelli, chiamato dalla produzione all’ultimo momento per sostituire George Cukor – una scelta che si rivelò profetica, orientando il destino del musical hollywoodiano –, non delude le attese e benché relativamente inesperto (qui è al suo terzo film, il primo a colori e il primo su larga scala), dimostra un’abilità straordinaria. L’ombra di Cukor, maestro della direzione attoriale e delle sottigliezze drammatiche, avrebbe forse infuso un realismo più asciutto, ma Minnelli, con il suo background teatrale e una sensibilità visiva d’eccezione, abbracciò la natura intrinsecamente stilizzata del musical. La sua regia, intrisa di una raffinata teatralità, riesce a rendere le atmosfere di inizio ‘900 e la levità di ballo e canto perfettamente innestati nel tessuto narrativo, elevando ogni numero musicale a una sequenza coreografica e cromatica di rara bellezza. L’uso del Technicolor è qui non mero artificio, ma linguaggio espressivo: i colori saturi, le tonalità calde degli interni domestici, il vibrante verde dei giardini e l’oro del tramonto creano un mondo tangibile eppure fiabesco, una vera e propria tela impressionista in movimento. Minnelli non si limita a illuminare il set, ma dipinge con la luce, trasformando ogni scena in un quadro vivido, anticipando il suo genio visivo che esploderà pienamente in capolavori successivi come Un Americano a Parigi o Spettacolo di varietà.
La storia è ambientata a St. Louis, Missouri, nel 1903, alla vigilia della grandiosa Esposizione Universale del 1904, un evento che avrebbe simboleggiato la modernità e il progresso americano, e la cui imminenza permea l’aria di un’eccitazione quasi febbrile. Una famiglia composta dai genitori e da quattro figlie deve affrontare la notizia del trasferimento in un’altra città, New York, minacciando di sradicare la loro esistenza placida e le loro radicate tradizioni. Inizierà così una sarabanda di immagini, canzoni e visioni in una St. Louis splendidamente ricostruita, una vera e propria capsula del tempo che celebra i riti quotidiani, le festività e i piccoli drammi di un’età dell’innocenza. La casa dei Smith non è solo un’abitazione, ma un santuario della memoria, un archivio sentimentale che la minaccia del trasloco rende ancora più prezioso, risvegliando il profondo legame emotivo con il luogo, le persone e le consuetudini che definiscono l’identità familiare.
Notevole, anzi indimenticabile, è la prova di Judy Garland nel ruolo di Esther Smith. La sua performance non è semplicemente una successione di numeri canori, ma un ritratto a tutto tondo di una giovane donna in bilico tra l’ardore del primo amore e la malinconia del cambiamento imminente. La sua voce, capace di esprimere una gamma infinita di emozioni, diviene il vero cuore pulsante del film. Memorabile, tra le tante gemme, la scena in cui la giovanissima Margaret O’Brien (appena 7 anni all’epoca delle riprese), nel ruolo della precoce Tootie, canta nella notte di Halloween. La sua interpretazione, intrisa di un’innocenza inquietante e di una vulnerabilità palpabile, con le sue lacrime autentiche e il suo desiderio fanciullesco di distruggere i pupazzi di neve in un atto di ribellione contro la perdita, conferisce alla pellicola una profondità inattesa, un tocco quasi surreale che spezza la patina di zuccherosa perfezione.
Tante scene si affacciano prepotentemente alla memoria, ciascuna un piccolo affresco di vita. Una tra le tante, e forse la più iconica: The Trolley Song, cantata da un coro di facoltose dame su un tram sferragliante e nobilitata dalla voce solista di Judy Garland. Questa sequenza è un trionfo di coreografia e di integrazione musicale, dove il movimento del tram, la gioia contagiosa del testo e la gestualità degli attori si fondono in un’unica, irresistibile esplosione di vita e di desiderio. Ma non meno potente è Have Yourself a Merry Little Christmas, intonata dalla Garland durante la veglia di Natale. Nata con un testo più cupo e rivisitata su richiesta della stessa attrice e di Minnelli per infondere una speranza necessaria in un film uscito nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, questa canzone è diventata un inno universale alla resilienza e alla forza d’animo, veicolando una malinconia tenera e un desiderio di un futuro migliore, rispecchiando l’ansia e la speranza di un’intera nazione. Questo numero, con le lacrime vere di Judy, offre uno dei momenti più genuinamente commoventi della storia del cinema, rivelando la fragilità umana dietro la perfezione delle scenografie.
Incontriamoci a Saint Louis è, in definitiva, un film che arriva come una brezza rinfrescante in una giornata di afa, un’ode senza tempo alla famiglia, alla casa e alla memoria. Leggero e rinfrancante nella sua superficie, nasconde sotto la patina scintillante del musical una meditazione sottile sul passaggio del tempo e sull’imprescindibile importanza delle radici. La sua inconfondibile atmosfera e la sua estetica senza tempo lo consacrano non solo come un classico intramontabile del musical hollywoodiano, ma come un’opera d’arte che continua a incantare e a commuovere, offrendo rifugio in un mondo di bellezza e armonia che resiste all’usura degli anni e alle sfide del presente.
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