Memorie di un assassino
2003
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Regista
Un abisso ci guarda di rimando. Non è un’iperbole nietzschiana da cinefilo adolescente, ma la constatazione quasi fisica che si deposita nell'anima dopo la visione di Memorie di un assassino (살인의 추억). Se il cinema poliziesco occidentale, da Seven a Il silenzio degli innocenti, ci ha abituati a una discesa nelle tenebre della psiche umana che culmina, pur nel suo orrore, in una catarsi – la cattura del mostro, la chiusura del cerchio –, il capolavoro di Bong Joon-ho del 2003 è l’esatto opposto. È un requiem per la logica, un poema sinfonico della frustrazione, un'elegia dell'incertezza che lascia una ferita aperta, pulsante, che sanguina direttamente fuori dallo schermo. Il film non è la cronaca di un'indagine; è la messa in scena della sua implosione.
Ambientato tra il 1986 e il 1991, in una Corea del Sud rurale e oppressa dalla dittatura militare del generale Chun Doo-hwan, il film trae spunto dai primi omicidi seriali documentati del paese, avvenuti nella provincia di Hwaseong. Ma l'approccio di Bong è tutt'altro che documentaristico. Egli orchestra una sinfonia stonata, dove il grottesco e il tragico danzano un pas de deux mortale. Da un lato abbiamo il detective locale Park Doo-man (un monumentale Song Kang-ho), un uomo che si affida all'istinto, alla violenza spicciola e a una presunta capacità di leggere la colpevolezza negli occhi dei sospettati. È l'emblema di un sistema arcaico, brutale e irrimediabilmente incompetente, un Don Chisciotte della provincia convinto di poter combattere i mulini a vento del male con un calcio volante ben assestato e confessioni estorte con la tortura. La sua fede nella propria intuizione è tanto granitica quanto ridicola, una superstizione travestita da metodo investigativo.
Dall'altro lato, da Seoul, arriva il detective Seo Tae-yoon (Kim Sang-kyung), l'incarnazione della modernità e del raziocinio. Porta con sé la logica deduttiva, la fede nelle prove documentali, la convinzione che "i documenti non mentono mai". Seo è l'agente del cambiamento, il rappresentante di una nuova Corea che guarda all'Occidente (non a caso, la prova del DNA risolutiva dovrà venire dagli Stati Uniti). Lo scontro tra questi due uomini non è solo uno scontro di personalità, ma un conflitto epistemologico, una guerra tra due paradigmi inconciliabili. È il vecchio mondo rurale, intriso di sciamanesimo e violenza patriarcale, che si scontra con il nuovo mondo urbano e scientista. E il genio di Bong sta nel dimostrare il fallimento catastrofico di entrambi. L'istinto di Park porta a incastrare innocenti, mentre la logica di Seo si schianta contro un muro di caos, sfortuna e un'inafferrabile, banale malvagità.
Il paesaggio stesso diventa un personaggio, un complice silenzioso e indifferente. Le infinite risaie dorate, bagnate da una pioggia incessante che sembra voler lavare via le tracce del peccato, sono un labirinto a cielo aperto. Non offrono nascondigli, eppure l'assassino svanisce al loro interno. Questa campagna, che dovrebbe essere un luogo di idillio bucolico, si trasforma in un palcoscenico lovecraftiano, un luogo di orrore primordiale dove la civiltà è solo una sottile vernice. Bong Joon-ho, con la complicità della fotografia di Kim Hyung-koo, dipinge un mondo desaturato, fangoso, dove i colori sembrano essersi ritirati per la vergogna. L'atmosfera è talmente densa da poter essere tagliata con un coltello; è una nebbia esistenziale che avvolge personaggi e spettatori, un'umidità che penetra nelle ossa e nell'anima.
La maestria del regista risiede nel suo controllo quasi miracoloso del tono. Memorie di un assassino è un'opera che sfida ogni facile etichetta di genere. Si ride, e ci si sente in colpa per averlo fatto. Le scene di interrogatorio, con i loro "dropkick" e le torture improvvisate, sfiorano la comicità slapstick, quasi una parodia dei film di Hong Kong, per poi precipitare nell'abisso della disperazione un istante dopo. Questa schizofrenia tonale non è un vezzo stilistico, ma il riflesso di una realtà storica e sociale assurda. Il contesto è fondamentale: le sirene dei raid aerei di esercitazione che interrompono le indagini, le manifestazioni studentesche che distolgono le forze di polizia, la brutalità sistemica accettata come prassi. La caccia al mostro è costantemente sabotata dall'inettitudine di uno Stato più interessato a reprimere il dissenso politico che a proteggere le sue cittadine. L'indagine diventa così un'allegoria della Corea del Sud di quegli anni: una nazione in un limbo doloroso tra un passato autoritario e un futuro democratico incerto, incapace di guardarsi onestamente allo specchio e di fare i conti con i propri demoni.
Se c'è un'opera letteraria a cui questo film può essere accostato, non è un romanzo di Thomas Harris, ma piuttosto qualcosa che sta tra l'assurdo kafkiano e la desolazione di un romanzo di Dostoevskij. I detective non sono eroi alla ricerca della verità, ma anime perse in un labirinto burocratico ed esistenziale. L'assassino non è un genio del male à la Hannibal Lecter, ma un'ombra, un fantasma definito solo dalla sua assenza e da un dettaglio atroce: una canzone, "Sad Letter", richiesta alla radio locale prima di ogni delitto. Questa traccia musicale, un elemento di pura cultura pop, diventa una litania infernale, la colonna sonora di un male imperscrutabile e per questo ancora più terrificante.
E poi c'è il finale. Un finale che trascende il cinema per diventare un atto di accusa, una domanda lanciata nel buio della sala e nel vuoto della storia. Anni dopo, Park, non più poliziotto ma un semplice venditore, torna per caso sulla scena del primo delitto. Incontra una bambina che gli rivela di aver visto l'assassino poco tempo prima, nello stesso punto, mentre guardava nel canale di scolo dove era stato trovato il corpo. Park le chiede che aspetto avesse. "Normale", risponde lei. "Aveva un viso comune". In questo momento, tutta la ricerca di un'eccezionalità del male crolla. Il mostro non ha un volto riconoscibile, non è "altro" da noi. Può essere chiunque. E allora, in una delle inquadrature più potenti e destabilizzanti della storia del cinema, Park si volta e guarda dritto in camera. Fissa noi.
Questo non è un semplice ammiccamento che rompe la quarta parete. È una frattura epistemologica. Bong Joon-ho ha dichiarato di aver girato quella scena pensando che il vero assassino, all'epoca ancora a piede libero, sarebbe potuto andare a vedere il film. Lo sguardo di Song Kang-ho è quindi rivolto a lui, al colpevole. Ma è anche rivolto a noi, al pubblico, complice silenzioso di uno spettacolo di violenza, ma anche rappresentante di quella società che ha permesso che l'orrore accadesse e rimanesse impunito. Quello sguardo ci interroga sulla natura della memoria, sulla fragilità della giustizia e sull'impossibilità di chiudere veramente i conti con il passato. Ci dice che anche se il caso è stato archiviato, il trauma rimane. Anche se il vero colpevole è stato identificato decenni dopo l'uscita del film (in uno di quegli incredibili scherzi del destino che solo la realtà sa scrivere), lo sguardo di Park mantiene intatta la sua potenza. Non era uno sguardo per trovare una persona, ma per sondare un'assenza, un vuoto morale.
Memorie di un assassino è un film che respira l'aria del suo tempo e del suo luogo, ma la sua risonanza è universale. Parla della caduta di ogni certezza, del naufragio della ragione di fronte all'irrazionale. È la cronaca di un fallimento che diventa arte sublime, un thriller che nega la soddisfazione del thriller per offrirci qualcosa di molto più prezioso e inquietante: una profonda meditazione sulla fallibilità umana e sulla cicatrice indelebile che la violenza lascia sul tessuto di una nazione e sulla memoria di chi resta. È cinema che non offre risposte, ma incide domande a fuoco vivo nella nostra coscienza. E in quel canale di scolo, in quella risaia, in quello sguardo finale, non vediamo solo il riflesso di un assassino dal volto comune, ma anche il nostro.
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