Mephisto
1981
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Regista
Dal romanzo di Klaus Mann, un'opera tanto potente quanto controversa che ripercorreva la vita dell’attore Gustaf Gründgens, celebre ai suoi tempi per le interpretazioni del Faust di Goethe, ma anche per la parte del boss malavitoso nel film M Il Mostro di Duesseldorf di Fritz Lang. Gründgens, il cui nome e la cui carriera erano stati qui dissezionati con una lucidità quasi chirurgica, si oppose strenuamente all’uscita del romanzo, intentando persino una celebre causa legale postuma volta a bloccarne la pubblicazione in Germania. Ma invano, poiché la potenza del racconto, una sorta di roman à clef che travalicava la mera biografia per farsi profonda indagine sul compromesso morale, era già destinata a risuonare ben oltre i confini del tribunale.
La sublime capacità di István Szabó si evidenzia soprattutto nel trasfigurare le atmosfere teatrali della vicenda fino a lambire, in una sorta di comunione spirituale, la realtà ostile e perversa: appare questa una delle possibili chiavi per leggere questo splendido film. Il regista ungherese, con una maestria che ricorda i grandi innovatori del cinema europeo, non si limita a mostrarci il palcoscenico, ma lo estende, lo deforma, lo contamina con la putrefazione morale e politica che avvolge la Germania. Ogni inquadratura è intrisa di questa ambiguità, con luci drammatiche e chiaroscuri che richiamano l'espressionismo tedesco – non solo per estetica, ma come lente attraverso cui cogliere la distorsione dell'anima. Il teatro diventa metafora, prigione, rifugio effimero e, in ultimo, strumento di un potere che sfrutta l'illusione per consolidare la propria brutale egemonia. Questa fusione tra arte scenica e orrore storico è il vero cuore pulsante dell'opera.
Si narra così la storia di un oscuro attore di provincia che, accecato da un'ambizione divorante e da una brama di riconoscimento, durante l’ascesa del regime nazista assurse a icona del potere grazie alla protezione delle più alte cariche naziste. Il suo mentore e protettore, il carismatico e terrificante "Generale" (chiaro riferimento a Hermann Göring, che realmente protesse Gründgens), diviene il suo Mefistofele personale, offrendogli la gloria in cambio dell'anima. Gründgens (che nel film prende il nome di Hendrik Höfgen per ovvie ragioni legali, ma anche per sottolineare la sua trasformazione in archetipo del compromesso) detestava il Nazismo; un odio profondo, viscerale, eppure, incredibilmente, mise a tacere la propria coscienza in nome della carriera. La sua "inner emigration" – il tentativo di salvarsi l'anima rimanendo all'interno di un sistema corrotto – si rivela una chimera, un'illusione auto-ingannatrice che lo trascina sempre più a fondo nel baratro dell'ignominia.
Gli squallidi compromessi a cui l’attore deve di volta in volta soggiacere – dall'abiura di amici e colleghi ebrei o di sinistra, alla forzata separazione dalla moglie che non si adegua, fino all'interpretazione di pièce propagandistiche che esaltano il regime – alla fine verranno drammaticamente a galla. Non tanto come rivelazione pubblica, ma come collasso interiore, una frammentazione dell'identità che rende Höfgen un guscio vuoto, una marionetta dorata nelle mani dei suoi aguzzini-benefattori.
Una cruda metafora del delicato equilibrio che intercorre tra potere precostituito e arte, in cui servilismo e talento puro si mescolano rendendo ardua una chiara lettura del messaggio estetico. Il film non offre risposte facili, ma pone interrogativi scomodi sulla responsabilità dell'artista, sulla malleabilità della morale e sulla perversione della bellezza quando si piega all'ideologia. È un monito universale sulla fragilità dell'integrità, un'eco delle parole di Theodor W. Adorno sulla barbarie della poesia dopo Auschwitz, che qui trova forma nel cinico riutilizzo del genio a fini distruttivi.
In questo magma di contraddizioni, emerge la statuaria performance di Klaus Maria Brandauer nel ruolo del protagonista. La sua interpretazione è un prodigio di ambiguità: sa infondere al personaggio uno spessore commovente e teneramente apatico, una fragilità disarmante che stride con l'arroganza esteriore. Brandauer non si limita a "recitare" Höfgen; lo incarna, ne rivela le crepe e le paure più recondite con una mimica facciale e una gestualità che comunicano molto più delle parole. Il suo sguardo, spesso assente o velato da una sottile malinconia, è quello di un uomo che, pur raggiungendo la vetta del successo, ha perso ogni barlume di sé, imprigionato nella gabbia dorata della sua stessa creazione.
Menzione di merito infine per la sontuosa ricostruzione storica, che non è mero decoro, ma elemento essenziale per immergersi in un'epoca di splendore e orrore. Dai costumi impeccabili alle scenografie imponenti, ogni dettaglio contribuisce a ricreare l'atmosfera oppressiva e seducente della Germania nazista, rendendo tangibile la trappola in cui Höfgen si dibatte. Un’opera da cui imparare molto, che getta uno sguardo laterale, ma penetrante, ad uno dei più terribili cataclismi politici dello scorso secolo, non attraverso le trincee e i campi di sterminio, ma dalle luccicanti scene dei teatri, dalle sale fumose del potere. Mephisto è un film senza tempo, un capolavoro che continua a risuonare con la sua bruciante attualità, invitandoci a riflettere sul prezzo dell'anima in un mondo dove il potere è sempre pronto a chiederne il saldo.
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