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Mezzogiorno di Fuoco

1952

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Che dire di questo film che non sia già stato scritto? Probabilmente si tratta dell’opera che più di ogni altra contribuì al successo dell’epopea western con la glorificazione dell’eroe solitario che icasticamente assurge a incarnazione della purezza del sogno americano. Ma sarebbe riduttivo confinare Mezzogiorno di Fuoco a mera esaltazione; in realtà, esso funge da lente d’ingrandimento sul lato oscuro di quel medesimo sogno, dissezionando con chirurgica precisione il fallimento morale di una comunità, l’alienazione dell’individuo e il peso schiacciante della responsabilità. Non è solo un western, ma un dramma esistenziale mascherato da parabola americana, un’allegoria bruciante nata dalle inquietudini e dalle paure della Hollywood maccartista.

La storia è incentrata sulla figura dello sceriffo di una placida città di provincia nel 1870. Hadlyville, un nome che evoca quiete e progresso, è un microcosmo della nascente civiltà americana, un insediamento che sta cercando di scrollarsi di dosso il retaggio della frontiera violenta per abbracciare la rispettabilità borghese. È in questo contesto di transizione, in cui l’ordine e la legge sono ancora fragili, che si colloca l’archetipo del custode della giustizia, Will Kane, interpretato con una maestria quasi dolente da un Gary Cooper al culmine della sua carriera, la cui apparente stanchezza fisica sul set (dovuta a reali problemi di salute) si traduce in un’intensità drammatica e una vulnerabilità che rendono il suo eroe incredibilmente umano, lontano anni luce dalla granitica invulnerabilità dei cowboy di celluloide.

L’uomo, innamoratosi di una ragazza di fede quacchera, per amore della fanciulla decide di appendere la stella al chiodo e di partire con la sua amata. Questo desiderio di pace, di una vita normale lontana dalla violenza, non è solo un movente narrativo, ma un elemento tematico cruciale. La fede quacchera di Amy, interpretata con eterea grazia da Grace Kelly, introduce una dimensione di pacifismo radicale che si scontra frontalmente con la violenza intrinseca del West e con il dovere di Kane. È un conflitto tra l’amore e il sacro dovere, tra la promessa di una nuova vita e il fardello di un passato che non vuole mollare la presa. Il loro viaggio verso la felicità è interrotto dalla cruda realtà di un passato che bussa alla porta, simbolo forse dell'inevitabilità della violenza che permea la natura umana o della fragilità di ogni utopia di pace.

Ma i suoi piani verranno stravolti dall’annuncio dell’arrivo di un pericoloso bandito e dei suoi complici con il treno di mezzogiorno. Il treno, non più simbolo di progresso e connettività, si trasforma qui in un inesorabile messaggero di morte, il motore di un destino al quale nessuno può sfuggire. È un espediente narrativo di geniale semplicità, che condensa l’intero dramma in un intervallo di tempo limitato e palpabile.

L’uomo, rimasto drammaticamente solo, si appresterà al duello per puro senso di responsabilità. La sua solitudine non è una scelta eroica, ma il risultato di una spaventosa abdicazione collettiva. La comunità di Hadlyville, che lui ha protetto e servito, si rivela codarda, egoista e opportunista, preferendo la cieca indifferenza al rischio di schierarsi. Questo è il cuore pulsante e polemico del film: la disillusione verso la collettività, la critica sottile ma ferocissima a una società che rinuncia ai propri principi morali di fronte alla minaccia. Non è più la glorificazione del mito americano, ma la sua disamina spietata: il sogno si rivela una chimera quando la sua difesa è affidata solo a un uomo, mentre il resto della comunità si ritira nell’ombra. Questa parabola, orchestrata dallo sceneggiatore Carl Foreman (all’epoca vittima della "lista nera" di Hollywood e costretto a fuggire in Inghilterra), risuona come un amaro commento sul clima di delazione e paura che attanagliava l’industria cinematografica e l’America tutta durante gli anni della Caccia alle Streghe. Kane, solo contro i suoi aggressori e l’indifferenza della sua città, diventa metafora dell’intellettuale o dell’artista isolato e perseguitato.

Il film è una clessidra inesorabile che scandisce il tempo che separa i protagonisti dal duello finale. Questa struttura narrativa in tempo reale, quasi teatrale, è un colpo di genio del regista Fred Zinnemann. Ogni ticchettio dell’orologio, ogni sguardo sui volti tesi, ogni scena che mostra il trascorrere dei minuti, amplifica la tensione psicologica e la claustrofobia emotiva. Zinnemann, con la sua regia asciutta e precisa, trasforma l'attesa in un personaggio a sé stante, rendendo il pubblico partecipe dell'agonia di Kane. È una tecnica che prefigura certi thriller moderni, ma che qui è al servizio di un dramma morale di intensità quasi shakespeariana. L’imminenza del mezzogiorno diventa non solo un appuntamento con la morte, ma con la verità: la verità sulla natura dell’eroismo, sulla fragilità della giustizia e sull’effimera lealtà degli uomini. Non è solo la narrazione che si contrae, ma l'anima stessa del protagonista, messa sotto una pressione insopportabile, mentre il mondo intorno a lui si rivela nella sua meschina, cinica realtà.

Girato in un bianconero da levare il fiato, fu orribilmente deturpato negli anni 80 da un colore artificiale, che suona come un paio di baffi scarabocchiati sopra una figura michelangiolesca. Il bianco e nero originale non era una mera limitazione tecnica, ma una scelta artistica deliberata e fondamentale. Conferiva alla pellicola una gravitas quasi documentaristica, un’atmosfera cupa e contrastata che esaltava la dicotomia tra bene e male, tra luce e ombra, tra coraggio e viltà. I volti sudati, gli sguardi persi nell'angoscia, i dettagli dei sobborghi polverosi di Hadlyville, tutto acquistava una profondità e una pregnanza simbolica che il colore avrebbe inevitabilmente annacquato. La colorizzazione fu un atto di vandalismo culturale, un tentativo di appiattire un capolavoro a un prodotto più "commerciale", ignorando completamente l'intento estetico e la potenza espressiva di un film che si nutre delle sue gradazioni di grigio per esplorare le sfumature morali di un’anima in bilico sull’orlo dell’abisso. Vedere Mezzogiorno di Fuoco a colori è come ascoltare un’orchestra sinfonica attraverso un’autoradio scadente: si perde l’anima.

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