Un Uomo da Marciapiede
1969
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Regista
Uno splendido film sull’alienazione metropolitana e sulla difficoltà di comunicare con i propri simili a firma di un ispiratissimo Schlesinger alla regia e di un Dustin Hoffman davvero straordinario, alla sua seconda prova dopo Il Laureato. Un'opera che, nel palinsesto cinematografico del 1969, si ergeva come un monito bruciante e profetico, un lampo di onesta crudeltà nel cuore di un’America in pieno fermento, destinata a infrangere le illusioni del decennio precedente. Il contributo di Hoffman, qui già un attore dalla sensibilità fuori dal comune, trascende la mera interpretazione; egli incarna la disillusione di un’intera generazione, la caduta dei miti e l’emergere di una nuova, dolorosa realtà. La sua trasformazione da Benjamin Braddock, icona della ribellione borghese, al naive e sognatore Joe Buck, segna un punto di non ritorno nella sua carriera e nel modo stesso di intendere l’eroe cinematografico, non più intonso e perfetto, ma fragile, umanissimo e sconfitto. Non è un caso che Un Uomo da Marciapiede sia stato il primo e unico film con un rating "X" (all’epoca equivalente all’attuale NC-17, riservato al materiale pornografico o estremamente controverso) a vincere l’Oscar come Miglior Film, una decisione audace che sottolineava la volontà dell’Academy di riconoscere un cinema nuovo, spietato e autentico.
Un ragazzotto di provincia, Joe Buck, arriva a New York carico di speranze e di un’ingenua quanto anacronistica immagine di sé come "cowboy" galante e affascinante. Finirà per fare il gigolò, un’immagine distorta e degradata della sua identità desiderata, con l’aiuto di Rico, uno sbandato che vive di espedienti ai margini della società. La sua discesa non è solo un percorso geografico dal Texas rurale alla giungla d'asfalto, ma un vero e proprio calvario iniziatico nella brutalità della metropoli. New York, in questa pellicola, non è solo uno sfondo, ma un personaggio a sé stante: una creatura vorace e indifferente che mastica e sputa i sogni, un labirinto di solitudine e prevaricazione. Le illusioni di Joe si scontrano con una realtà fatta di squallore, volgarità e sfruttamento, che lo costringono a una prostituzione non solo fisica ma anche dell'anima, vendendo un’immagine di mascolinità che lui stesso stenta a riconoscere.
Tra i due si instaurerà una strana ma profonda amicizia, un legame che li porterà a fuggire dallo squallore metropolitano che li circonda per tentare di coronare il sogno di sole e libertà a perdita d’occhio in Florida. Questa simbiosi improbabile tra il giovane, bello e ingenuo cowboy e il vecchio, malato e cinico vagabondo diventa il cuore pulsante del film. Non è un’amicizia convenzionale, ma una co-dipendenza disperata, una ricerca di salvezza reciproca in un mondo che sembra averli entrambi abbandonati. Il sogno della Florida non è che un miraggio, un’ultima, fragile speranza aggrappata alla promessa di un altrove incontaminato, l’ultimo brandello di un "sogno americano" ormai corrotto e sgretolato. È un desiderio primordiale di calore e dignità che contrasta aspramente con il grigiore opprimente delle strade di Manhattan, immortalato da una fotografia che non teme di esplorare il lato più scabro e malinconico della città.
Il personaggio di Rico (Ratso nell’edizione originale, interpretato da uno Jon Voight di intensità rara) è la chiave di volta di tutto l’impianto narrativo. Il suo rancore verso quella società che l’ha relegato ai margini, costringendolo ad arrabattarsi per vivere, è il sentimento che meglio descrive l’opera di Schlesinger. Ratso non è solo un parassita, ma un profeta, un Tiresia urbano che ha visto troppe brutture e ha pagato un prezzo altissimo. La sua intelligenza acuta e il suo cinismo ferocemente protettivo sono la corazza che nasconde una vulnerabilità profonda. È lui a dettare le regole di sopravvivenza in quella giungla urbana, a fornire a Joe una guida distorta ma necessaria, in un rapporto che è tanto di mentore quanto di sfruttatore, ma che evolve in qualcosa di ben più complesso e commovente. La scena in cui Ratso, attraversando la strada, viene quasi investito da un taxi e grida l'indimenticabile "I'm walking here!", non fu prevista in sceneggiatura, ma un’improvvisazione di Voight che cattura perfettamente la sua indole ribelle e il suo spirito combattivo, diventando uno dei momenti più iconici e citati della storia del cinema.
Il suo livore è il livore dei vinti, il suo sgradevole aspetto fisico, le sue menomazioni (è zoppo e ha la tubercolosi) sono sublimate nell’atletismo e nella prestanza di Joe Buck. Questo contrasto fisico è una metafora potente: Ratso è il corpo malato di una società malata, le cui scorie si riversano sulle figure più marginali, mentre Joe, con la sua bellezza superficiale e la sua salute apparente, è il veicolo attraverso cui Ratso tenta di risorgere. È come se Joe assorbisse su di sé il peso della disperazione di Ratso, portando in giro non solo le sue speranze, ma anche il suo dolore, in una sorta di transustanziazione laica. Questa dinamica si riflette anche nella crisi della mascolinità che il film esplora, presentando due archetipi di uomo falliti nel contesto di un’America che ridefiniva i propri valori e i propri idoli.
Rico, incontrando Joe, comprende che ha una speranza di redenzione, trasferendo in quel ragazzo pulito tutta la sua lancinante voglia di sopravvivere ad un meccanismo che l’ha dilaniato. È una ricerca disperata di un raggio di luce in un’esistenza di tenebra, un tentativo di aggrapparsi a qualcuno che rappresenti ancora una purezza perduta. Il finale, straziante e indimenticabile, sulla corriera diretta verso la Florida, sigilla il loro legame in una tragedia che è al tempo stesso un atto di amore e di resa. L'immagine di Joe che stringe tra le braccia il corpo esanime di Ratso, mentre il sole inizia ad albeggiare sul finestrino, è una delle più toccanti e iconiche del cinema di New Hollywood, condensando in un unico fotogramma la fragilità dei sogni e la crudeltà del destino. È il trionfo di un’umanità imperfetta e disperata, capace di trovare un barlume di solidarietà anche nell’abisso più profondo.
Un’opera straziante sull’emarginazione e sulla voglia di riscatto, ma anche un affresco senza compromessi di un’epoca, un monito contro la retorica del successo e del benessere a tutti i costi. Il film di Schlesinger è una pietra miliare che ha saputo catturare l’angoscia di un decennio, la disintegrazione del sogno americano e l’emergere di una nuova ondata di registi e attori che non temevano di esplorare i recessi più oscuri dell’animo umano e della società. La sua influenza è palpabile in opere successive che hanno continuato a sondare il lato oscuro delle metropoli e la solitudine dei reietti, da Taxi Driver a Panic in Needle Park, confermando la sua statura di classico intramontabile e di testimonianza potente di un cinema che osava guardare in faccia la verità.
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