Mio padre e mio figlio
2005
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Regista
Ci sono ferite che non si rimarginano, ma che si trasmettono come un'eredità di sangue, un patrimonio genetico del dolore. Si insinuano nelle pieghe del silenzio tra un padre e un figlio, diventando la lingua non parlata di intere generazioni. "Mio padre e mio figlio" (Babam ve Oğlum) di Çağan Irmak è la cronaca sublime di una di queste ferite, un'opera che trascende il melodramma per farsi elegia nazionale e, al contempo, archetipo universale di una riconciliazione impossibile eppure necessaria. Non lasciatevi ingannare dalla sua reputazione di "macchina da lacrime" del cinema turco contemporaneo; la catarsi che il film offre non è a buon mercato. È una catarsi guadagnata con la precisione di un chirurgo dell'anima, che incide nel profondo dei legami familiari per estrarne il nucleo incandescente di amore, orgoglio e rimpianto.
Il film si apre su un topos narrativo antico come il mondo: il ritorno del figliol prodigo. Ma Sadik (Fikret Kuşkan), il nostro protagonista, non torna alla casa paterna nell'Egeo per chiedere perdono o per reclamare la sua parte di eredità. Torna da sconfitto. Giornalista di sinistra, idealista e sognatore, ha sacrificato il legame con il padre Hüseyin (un monumentale Çetin Tekindor) sull'altare della rivoluzione. Ha lasciato la terra per la città, le tradizioni per l'ideologia. Il colpo di stato del 1980, però, non ha solo spezzato i sogni di una generazione, ma ha letteralmente spezzato lui. Torturato in prigione, con la salute irrimediabilmente compromessa e una moglie persa durante il parto in circostanze tragiche, Sadik torna al villaggio natio con l'unica cosa che gli è rimasta: suo figlio di sette anni, Deniz (Ege Tanman). È un ritorno che sovverte la parabola biblica: non c'è un vitello grasso ad attenderlo, ma il silenzio granitico di un padre che non lo ha mai perdonato per aver scelto la politica anziché la famiglia, per aver anteposto un'idea astratta al dovere concreto di figlio.
Qui, il film dispiega la sua prima, potentissima dialettica. Da un lato, la Turchia urbana, politicizzata, intellettuale e sconfitta di Sadik; dall'altro, la Turchia rurale, ancestrale, legata ai cicli della terra e a un codice d'onore non scritto, incarnata dal padre Hüseyin. Hüseyin non è un semplice patriarca reazionario. È un re contadino, un Lear anatolico il cui regno sono i suoi campi e la cui tragedia è l'incomprensione per un figlio che parla una lingua diversa. Il suo silenzio non è assenza di sentimenti, ma un muro eretto con i mattoni del dolore e dell'orgoglio ferito. Çetin Tekindor lo interpreta con una fisicità che ricorda i grandi patriarchi del cinema di Elia Kazan o i contadini nodosi dei romanzi di Steinbeck: ogni ruga del suo volto è una mappa della sua delusione, ogni suo gesto lento e ponderato è un giudizio inappellabile. È un uomo che comunica per ellissi, per sguardi, per una brusca carezza negata, trasformando il dramma familiare in una tragedia di proporzioni classiche.
In mezzo a questi due mondi, a questi due uomini incapaci di comunicare, si muove il piccolo Deniz. E qui Irmak compie il suo colpo di genio meta-testuale. Deniz non è solo il testimone innocente, il catalizzatore della riconciliazione. È un nerd, un lettore accanito di çizgi roman, i fumetti. Il suo mondo è popolato da eroi con superpoteri, da narrazioni chiare dove il bene e il male sono nettamente distinti. Questo suo universo pop, colorato e fantastico, diventa la sua chiave di lettura per decodificare il mondo incomprensibile degli adulti, un mondo fatto di silenzi ostili, di malattie inspiegabili e di un nonno che sembra un orco delle favole. La sua ricerca del mitico "Mostro del Bagno" o il suo tentativo di spiegare le gesta dei suoi eroi di carta a un mondo rurale che non li capisce è una metafora struggente della condizione del bambino di fronte al trauma. Come la Ofelia de "Il labirinto del fauno" di del Toro o la piccola Ana de "Lo spirito dell'alveare" di Erice, Deniz usa la finzione per dare un senso a una realtà troppo dolorosa da accettare. La sua innocenza non è passiva; è un atto di resistenza ermeneutica, un tentativo costante di tradurre il dolore in avventura, la tragedia in una storia a fumetti con un finale eroico.
Çağan Irmak dirige con un classicismo impeccabile, intriso di una luce calda, quasi pittorica. La campagna egea non è un semplice sfondo, ma un organismo vivente, un paradiso perduto la cui bellezza pastorale stride con il dramma che si consuma al suo interno. C'è un'eco del cinema di Terrence Malick nella fotografia baciata dal sole, ma senza la sua astrazione filosofica; Irmak resta saldamente ancorato ai volti, ai corpi, alle emozioni dei suoi personaggi. Il suo è un melodramma sirkiano nell'anima, che utilizza i codici del genere non per manipolare lo spettatore, ma per esplorare le verità emotive più profonde. Ogni inquadratura è calibrata per massimizzare l'impatto emotivo, ma è la scrittura, ricca di dettagli e di caratteri secondari indimenticabili (la nonna materna e protettiva, gli amici eccentrici del villaggio), a dare al film la sua straordinaria verosimiglianza e a impedirgli di scivolare nel sentimentalismo.
Il contesto storico-politico è il motore immobile della narrazione, il trauma originario che ha messo tutto in moto. Ma il film, con intelligenza e sensibilità supreme, evita di essere un pamphlet politico. Il colpo di stato del 1980 non è rappresentato con immagini di repertorio o scene di violenza esplicita; è presente come un fantasma, un'assenza che definisce ogni cosa. È nelle cicatrici sulla schiena di Sadik, nella sua tosse persistente, nel suo sguardo perennemente velato di malinconia. Irmak sposta il focus dal macro-evento storico alle sue micro-conseguenze intime. Non ci interessa sapere chi avesse ragione politicamente; ci interessa capire come quella frattura storica si sia replicata, con esiti ancora più devastanti, all'interno di una singola famiglia. La politica, in "Mio padre e mio figlio", non è un'ideologia da dibattere, ma una forza del destino che, come un'antica divinità greca, ha segnato il fato degli uomini, lasciandoli a raccogliere i pezzi delle loro vite.
E poi c'è il finale. Un crescendo emotivo di rara potenza, una sequenza di riconciliazione che è entrata di diritto nell'immaginario collettivo turco e non solo. È il momento in cui le dighe emotive, costruite in anni di silenzio e risentimento, finalmente crollano. La conversazione finale tra padre e figlio, sussurrata, spezzata, è un capolavoro di scrittura e interpretazione. Le parole non dette per una vita intera vengono finalmente pronunciate, non per cancellare il passato, ma per accettarlo, per dargli un senso. L'amore filiale e paterno, così a lungo represso, esplode in una scena di una tenerezza quasi insopportabile. È la catarsi perfetta, perché non è una facile assoluzione, ma un doloroso passaggio di consegne. Hüseyin, finalmente, "vede" suo figlio, non più come un traditore o un fallito, ma semplicemente come suo figlio. E Sadik, a sua volta, affida il futuro – suo figlio Deniz – a quel passato da cui era fuggito. L'immagine conclusiva, con il nonno che porta il nipote sulle spalle, è la chiusura del cerchio: la ferita non è guarita, ma è stata compresa, e la memoria del dolore può finalmente trasformarsi in un lascito d'amore.
"Mio padre e mio figlio" è un'opera di una grandezza straziante. Un film che riesce a essere intimamente turco nella sua ambientazione e nel suo contesto storico, e al tempo stesso universalmente umano nel suo nucleo tematico. È un racconto sulla difficoltà di essere figli e sulla tragedia di essere padri, sulla memoria come fardello e come unica via per la salvezza. È la dimostrazione che il grande cinema, anche quando assume le forme del melodramma, può toccare le corde più profonde dell'esperienza umana, costringendoci a confrontarci con i nostri stessi silenzi, i nostri stessi rimpianti e la nostra disperata, inestinguibile necessità di essere amati e perdonati da coloro che ci hanno messo al mondo. Un capolavoro.
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