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Mission

1986

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Scritto e sceneggiato da Robert Bolt su soggetto originale si svolge in Sud America nel 1750, nella foresta pluviale situata sopra le cascate Iguazu in una porzione di terra che oggi si divide in tre stati: Argentina, Brasile e Paraguay. Il contesto storico non è un mero fondale pittorico, ma un personaggio silente e pervasivo: siamo alla vigilia del Trattato di Madrid (1750), un accordo scellerato tra le corone di Spagna e Portogallo che ridisegnava i confini coloniali sudamericani secondo il principio dell'”uti possidetis”, ignorando completamente le realtà umane e le fragili comunità indigene, tra cui le celebri riduzioni gesuite. Queste ultime rappresentavano un esperimento sociale e spirituale unico, un tentativo di creare un modello di società basato sull'eguaglianza, sull'autogoverno e sulla protezione degli Indios Guarani dalle rapacità dei bandeirantes portoghesi e degli encomenderos spagnoli.

Il film segue le vicende di un missionario gesuita, Padre Gabriel (una figura archetipica di dedizione spirituale), che si inerpica in quella landa selvaggia per prendere contatto con gli indios e tentare di convertirli al cristianesimo. Il suo approccio è diametralmente diverso da tutti gli altri che hanno tentato prima di lui, da ogni forma di proselitismo coercitivo o violenza coloniale. Gabriel suona il suo oboe affascinando con la melodia gli indios che lo accolgono nel loro villaggio permettendogli di costruire una chiesa, fulcro della nuova missione. Questa scena d'apertura è già un manifesto programmatico: la musica, un linguaggio universale e puro, si erge a ponte tra culture, un veicolo per un messaggio di pace e reciproco rispetto, in netto contrasto con le armi e la sopraffazione che hanno segnato la storia della conquista. La scelta dell'oboe, strumento dalla voce malinconica e spirituale, non è casuale: simboleggia la fragilità di un ideale di armonia destinato a scontrarsi con la dura realtà del potere.

Già nelle prime battute sono introdotti gli elementi che faranno la fortuna di questo film, elevandolo a sublime epopea visiva e sonora: la natura incontaminata e lussureggiante resa palpitante dalla splendida fotografia di Chris Menges (già collaboratore di Joffé nell’ottimo “Urla del Silenzio” del 1984), una fotografia che non si limita a documentare, ma eleva il paesaggio a entità sacra, rifugio di una purezza primigenia. La luce crepuscolare che filtra attraverso la fitta canopia, le texture vivide della vegetazione, la maestosità quasi terrificante delle cascate: tutto concorre a creare un senso di grandezza e vulnerabilità, un Eden paradisiaco sul punto di essere profanato. È un'ode alla bellezza selvaggia, un monito sulla sua intrinseca fragilità di fronte alla cieca logica del profitto e della conquista. A questa visione si fonde l’ipnotica colonna sonora di Ennio Morricone con il tema "Gabriel’s Oboe" che diviene una sorta di mantra catartico all’interno della narrazione e di fatto una delle melodie cinematografiche più note e amate di sempre. Non è solo un sottofondo; è un coro polifonico che esprime il dolore, la speranza, la spiritualità e la tragedia imminente. Morricone, con la sua maestria, intreccia sonorità sacre, temi melodici che richiamano la purezza perduta, e l'urgenza drammatica degli eventi, culminando in un'orchestra che amplifica ogni emozione, ogni sacrificio. La sua capacità di far "parlare" la musica, di renderla una forza motrice e un veicolo narrativo, raggiunge qui vette ineguagliate, rendendo il tema dell'oboe quasi un personaggio a sé, un'anima vibrante che attraversa il film. A completare questo triumvirato di eccellenze artistiche, la grande prova recitativa di un Jeremy Irons in stato di grazia, la cui austerità e pacata determinazione incarnano la forza incrollabile della fede e la tragica consapevolezza dell'ineluttabile.

Parallelamente viene introdotto un secondo personaggio, lo spagnolo Rodrigo Mendoza (Robert De Niro), schiavista e uomo d’armi che macchiatosi di un tremendo delitto – l'omicidio del fratello per gelosia e passione – anela a una redenzione che sembra impossibile. Espia la sua colpa trasportandone fisicamente il fardello attraverso la foresta, un sacco contenente la sua pesante armatura.

La scena centrale del film è sicuramente questo novello Sisifo che arranca attraverso gli ostacoli della natura, sotto lo sguardo inizialmente sprezzante degli Indios e poi compassionevole di Padre Gabriel, trascinandosi il peso della sua armatura, simbolo tangibile di una vita di violenza, peccato e oppressione. È una sequenza di straordinaria intensità, una vera e propria via crucis laica e, al contempo, profondamente spirituale, che ci ricorda le fatiche di figure bibliche e mitologiche, ma calata in una dimensione di redenzione personale. Una volta che quel tremendo peso metallico sprofonderà nelle acque di Iguazu – un battesimo rituale nelle pure e violente acque della cascata, una catarsi viscerale e liberatoria – Rodrigo sarà finalmente libero dalla sua vecchia vita di uomo d’arme e potrà unirsi ai missionari da fervente servo di Dio, dimostrando con il suo percorso la possibilità di una trasformazione radicale e di una fede ritrovata. Il suo è un pentimento che non si esprime solo nella preghiera, ma nell'azione, nella dedizione, e infine nel sacrificio.

Nel frattempo in Europa gli spagnoli si impegnano a cedere alla corona del Portogallo parte dei loro possedimenti in Sud America e la missione di Padre Gabriel rientra tra questi. Inizierà una trattativa serrata tra Chiesa, Spagna e Portogallo per il destino della missione, una fredda danza diplomatica in cui la vita e la cultura di migliaia di persone sono ridotte a mere pedine su una scacchiera geopolitica. La Chiesa, divisa tra la protezione delle riduzioni e le pressioni politiche ed economiche della Curia Romana, si trova in un'impossibile posizione di compromesso, rivelando le sue fragilità e le sue ipocrisie interne.

Come spesso accade la purezza degli Indios verrà calpestata dalla prevaricazione del colonialismo europeo. La tragedia è inevitabile, un dramma greco mascherato da epopea storica, dove le virtù più alte si scontrano con la più bassa delle cupidigie. Nella visione di Joffé le passioni degli uomini, la loro sete di potere e ricchezza, incontrano e brutalizzano la purezza di Dio attraverso l’incontaminata esistenza delle popolazioni indigene. La sua posizione è chiara e la sua critica alla feroce spartizione delle terre sudamericane è fin troppo manifesta, un grido disperato contro la distruzione di un paradiso terrestre e spirituale. "Mission" non è solo un film storico; è un'allegoria potente sulla collisione tra l'idealismo e il realismo politico, tra la fede e la ragion di stato, lasciando nello spettatore una profonda, bruciante malinconia per ciò che è stato perduto e per le innumerevoli volte in cui la storia ha ripetuto la stessa dolorosa lezione di prevaricazione e distruzione. È un'opera che, a distanza di decenni, continua a risuonare per la sua bellezza estetica e per l'attualità del suo monito morale.

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