Mommy
2014
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Regista
Mommy è un film che rimane a lungo nella memoria, è un'esplosione di cinema, un melodramma punk rock che ti afferra per il bavero e ti scuote per due ore e un quarto, lasciandoti alla fine senza fiato, con le orecchie che fischiano e il cuore a pezzi, ma stranamente, meravigliosamente, vivo. L'allora venticinquenne "enfant terrible" del cinema del Québec firma qui il suo capolavoro, un'opera di una vitalità e di un'audacia formale quasi sfrontate, che esplora il più primordiale e caotico dei legami, quello tra una madre e un figlio, con un'intensità quasi insostenibile. È un film che, come i suoi protagonisti, è imperfetto, chiassoso, a tratti irritante, ma la cui onestà emotiva è così brutale e abbagliante da renderlo un'esperienza cinematografica essenziale nel cinema contemporaneo, la cui eredità perdurerà a lungo nella coscienza di molti cineasti.
La storia è un'immersione in un'apnea emotiva. Diane "Die" Després, una vedova esuberante e dalla parlantina sboccata, decide di riprendere con sé il figlio quindicenne, Steve, affetto da un violento disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Il loro rapporto è un campo di battaglia e al contempo un rifugio. Si amano con una ferocia quasi animalesca e si feriscono con la stessa, identica intensità. La loro vita è un'altalena costante tra momenti di tenerezza disarmante e improvvise, terrificanti esplosioni di violenza. Questo equilibrio precario viene alterato dall'arrivo di Kyla, la vicina di casa, un'insegnante balbuziente in congedo per un trauma non specificato. Insieme, questo trio di disadattati forma una bizzarra e toccante famiglia d'elezione, un'isola di fragile stabilità in un oceano di caos.
La prima cosa che colpisce e spiazza lo spettatore è la scelta formale più radicale di Dolan: un formato di proporzioni 1:1. Lo schermo è un quadrato perfetto, una prigione visiva che ci costringe in un'intimità quasi soffocante con i personaggi. Questa non è una civetteria da regista esordiente, ma una scelta filosofica potentissima. Il riquadro stretto riflette perfettamente la condizione esistenziale dei protagonisti: sono intrappolati. Die è intrappolata dalla sua condizione economica e sociale, Steve dalla sua malattia e dalla sua rabbia, Kyla dal suo mutismo traumatico. Non c'è spazio per respirare, non c'è orizzonte, solo l'intensità dei loro volti, delle loro urla, dei loro abbracci. Ma poi, per due volte nel film, accade un miracolo cinematografico. Nei momenti di massima euforia e speranza—in particolare nella celebre sequenza in cui Steve sfreccia in skateboard sulle note di Wonderwall degli Oasis—il personaggio spinge letteralmente con le mani i bordi dello schermo, allargando l'inquadratura in un formato widescreen liberatorio. È un gesto meta-cinematografico di una bellezza mozzafiato, un momento in cui il film stesso sembra prendere un respiro profondo, in cui la forma si piega per esprimere l'esplosione di gioia e di possibilità dei suoi personaggi. Le performance del trio centrale sono a dir poco vulcaniche. Anne Dorval, musa di Dolan, è una Die magnifica, un concentrato di forza materna, volgarità e vulnerabilità. Antoine Olivier Pilon è uno Steve elettrico e imprevedibile, capace di passare da una violenza spaventosa a una dolcezza infantile con uno schiocco di dita. E Suzanne Clément offre una prova di rara finezza nel ruolo di Kyla, il catalizzatore silenzioso la cui graduale guarigione avviene per osmosi, assorbendo la vitalità caotica dei suoi nuovi amici. Insieme, non recitano, vivono sullo schermo, creando un nucleo di autenticità così potente da far male.
L'estetica di Dolan è un maximalismo pop che deve molto a maestri come Pedro Almodóvar, per l'uso audace del colore e per la centralità di figure femminili potenti e imperfette, e a Wong Kar-wai, per la capacità di usare la musica pop non come semplice colonna sonora, ma come vero e proprio linguaggio emotivo. Le canzoni di Céline Dion, Dido, Counting Crows e Lana Del Rey non sono un sottofondo nostalgico. Sono la lingua franca emotiva di personaggi che spesso non riescono ad articolare i loro sentimenti più profondi. La scena in cui i tre ballano e cantano a squarciagola in cucina sulle note di Colorblind dei Counting Crows è un momento di pura grazia, un'epifania domestica in cui la musica diventa l'unica forma di comunione e catarsi possibile. In questo, l'approccio di Dolan può essere paragonato a una forma di Pop Art cinematografica: prende elementi della cultura "bassa" o di massa e li eleva a veicolo di un'emozione altissima e universale, trovando il sublime nel kitsch, e il tragico in una canzone da classifica.
Ma sotto la superficie del melodramma familiare, il film nasconde un'anima politica affilata. Dolan ambienta la storia in un Canada prossimo venturo in cui è stata approvata una legge fittizia, la S-14, che permette ai genitori di internare coattivamente i figli con problemi comportamentali in istituti psichiatrici, con una semplice firma. Questa legge incombe sulla storia come una spada di Damocle, trasformando il dramma personale di Die in un dilemma politico e sociale. La sua lotta per tenere Steve con sé non è solo una battaglia d'amore, ma una battaglia contro un sistema che preferisce l'internamento alla cura, l'esclusione al sostegno. È una critica feroce a una società che, dietro una facciata di efficienza, abdica alla sua responsabilità verso i più fragili.
Mommy è un'esperienza viscerale, un pugno nello stomaco e una carezza subito dopo. È un film sull'amore materno come forza della natura, un amore incondizionato, imperfetto, a volte tossico, ma sempre, disperatamente, presente. La sua inclusione nel canone è un atto dovuto verso un cinema audace, che non ha paura di essere eccessivo, sentimentale e sfacciatamente emotivo. L'immagine finale di Steve che corre, in un gesto di disperata e ambigua liberazione, è il sigillo perfetto su un'opera che urla, con tutta la forza che ha in corpo, la bellezza e la tragedia di essere vivi.
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