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Le Vacanze di Monsieur Hulot

1953

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Jacques Tati, indimenticato e sublime artista del cinema francese, dirige e interpreta questa deliziosa commedia sulle vacanze del signor Hulot, una piaga che cala disgraziatamente su un hotel sul mare causando gaffe, rovesci e distruzioni di ogni tipo. Il suo Monsieur Hulot, figura eterea e quasi mitologica, emerge dalle onde con la grazia goffa di un fantasma, un anacronismo vivente che, senza proferire quasi parola, destabilizza l'ordine prestabilito. Egli si inserisce in una genealogia illustre di clown cinematografici, un epigono di Buster Keaton per l'imperturbabilità, di Charlie Chaplin per la malinconica eccentricità, eppure Tati trascende la mera imitazione. Non si tratta di una comicità basata sulla singola gag isolata o sulla psicologia del personaggio, quanto piuttosto su una coreografia precisa di caos e un'acuta osservazione sociologica. Hulot non è il centro di gravità attorno a cui ruota la narrazione; è piuttosto un catalizzatore, un'onda anomala che, al suo passaggio, rivela le piccole, ridicole manie e i riti sociali di una borghesia vacanziera appena affacciatasi all'era del turismo di massa.

Memorabili alcune scene come la catastrofica partita a tennis che, nonostante gli infortuni, avvince un’affascinante ospite inglese dell’albergo. Quella sequenza, un balletto surreale di volée sbilenche e scivolate imprevedibili, non è solo un tour de force di slapstick; è un microcosmo dell'intera opera. La racchetta che si contorce, le palline che volano imprevedibilmente, i giocatori che si ritrovano in posizioni assurde, tutto contribuisce a scardinare la pretesa dignità del rito sportivo borghese. La comicità non risiede tanto nell'azione in sé, quanto nella reazione – o nell'assenza di essa – degli spettatori, immobili nelle loro sedie a sdraio, assorbiti in un'esperienza che sfida ogni logica sportiva, ma che li intrattiene proprio per la sua imprevedibile, quasi dadaista, performance.

La comicità di Tati gioca sul falsopiano dell’incertezza ingenerata nello spettatore che in definitiva non riesce mai a capire se il goffo protagonista è cosciente dei disastri causati o ne è totalmente all’oscuro. Questa ambiguità non è un difetto, ma la cifra stilistica di un cinema che rifiuta la psicologia esplicita in favore di un'osservazione quasi antropologica. Tati ci invita a diventare etnografi delle piccole interazioni umane, a cogliere il fruscio di un giornale, il cigolio di una porta, il suono di un'auto che si avvia con un baccano infernale, tutti elementi di un'orchestra di rumori e non-detti che sostituisce il dialogo tradizionale. Il suono, in Tati, non è mero accompagnamento; è parte integrante della gag, un commento ironico o un elemento di disturbo che amplifica il paradosso visivo. Le voci umane si mescolano a un ronzio indistinto, diventano sottofondo, quasi a sottolineare l'insignificanza delle chiacchiere convenzionali di fronte alla pura e disarmante autenticità dell'azione involontaria.

La genialità di Tati risiede soprattutto nella postura del personaggio, il suo sapiente modo di muoverlo attraverso la scena facendogli compiere surreali interazioni con gli altri personaggi che incontra. Hulot è una silhouette, un punto di riferimento mobile in inquadrature spesso statiche, dense di dettagli e di figure umane che si muovono con una precisione quasi meccanica. È un approccio pittorico, quasi un tableau vivant in continuo divenire, dove ogni elemento visivo e sonoro è calcolato con maniacale precisione. L'autobus che si ferma con un sospiro metallico, la barca che si capovolge con una beffarda lentezza, la porta a vento che sbatte incessantemente: ogni oggetto, ogni frammento sonoro, è un personaggio in sé, un complice silenzioso dei disastri di Hulot. La regia di Tati è una lezione di minimalismo espressivo e di massima resa comica, un'architettura visiva e uditiva dove il montaggio è spesso dilatato, quasi a voler prolungare l'agonia comica o il momento di puro stupore.

Da questi improbabili incontri ne nasce un moto di puro sconcerto, un assalto di ilarità che si strozza in gola. Ma oltre la risata, "Le vacanze di Monsieur Hulot" offre una riflessione sottile, quasi malinconica, sulla modernità che avanza. Il film, pur essendo ambientato negli anni '50, cattura l'essenza di un'epoca in cui le convenzioni sociali e i riti del tempo libero stavano subendo una profonda trasformazione. La spiaggia di Saint-Marc-sur-Mer, dove Tati ha meticolosamente ricreato l'atmosfera delle sue vacanze d'infanzia, diventa un palcoscenico per un'umanità variegata, intenta a godersi le prime vere "congés payés" di massa. Hulot, con la sua involontaria sovversione, squarcia il velo di una placida, seppur rigida, normalità, rivelando l'assurdità intrinseca nelle abitudini e nelle aspettative. Non è un film didascalico o apertamente satirico; la sua critica è più un suggerimento, un sorriso ironico che si posa sugli automatismi della vita borghese, sulla ricerca forzata del divertimento, sulla rigidità di certe tradizioni di fronte all'irrompere dell'individualità, per quanto involontaria. In questo senso, l'opera di Tati si avvicina al teatro dell'assurdo, pur mantenendo una leggerezza e una grazia inconfondibili. La sua influenza è palpabile nel cinema successivo, dai maestri della gag visiva ai registi più attenti alla partitura sonora del film, e il suo approccio distaccato ma affettuoso all'umanità continua a risuonare.

Un’opera che scava alle radici della comicità, rivelando non solo il meccanismo del riso, ma anche la complessa e spesso buffa natura dell'esistenza umana. "Le vacanze di Monsieur Hulot" non è solo un film; è un manifesto artistico, un'esperienza sensoriale e intellettuale che, a quasi settant'anni dalla sua uscita, conserva intatta la sua capacità di sorprendere, divertire e far riflettere, confermando Tati come uno dei più originali e lungimiranti pensatori per immagini del XX secolo.

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