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Monsieur Verdoux

1947

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Da un soggetto di Orson Welles, Chaplin scrive, dirige, interpreta e produce un meraviglioso ritratto di piccolo borghese che si trasforma in subdolo assassino per necessità. Una genesi, quella del film, che è già di per sé rivelatrice: Welles aveva in mente un documentario sulla figura di Henri Désiré Landru, il "Barbablù di Gambais", ma il progetto fu accantonato per poi rinascere sotto la mano del genio chapliniano. Quella che avrebbe potuto essere una mera cronaca nera si trasforma così in una satira sociale graffiante e in un'inedita e audace virata stilistica per l'artista. La declinazione di Chaplin al tema è deliziosamente obliqua: una narrazione che alterna sfumature noir a un incedere ironico e poetico configurandosi come la prima grande black comedy della storia del cinema. Una commedia nera antesignana, capace di anticipare di anni le venature più macabre e beffarde che avrebbero poi permeato il cinema di Stanley Kubrick con il suo Il Dottor Stranamore o le idiosincrasie morali de Il Club degli Assassini di Robert Hamer, uscito appena un anno dopo e spesso erroneamente accreditato come capostipite del genere. Ma è in Chaplin che si ritrova per la prima volta quella disincantata allegria nel raccontare l'orrore, un vero e proprio atto di coraggio artistico che sanciva l'abbandono definitivo e clamoroso della figura del Vagabondo, un gesto che, comprensibilmente, spiazzò e irritò una parte consistente del pubblico e della critica.

Il signor Verdoux, bancario licenziato a causa della crisi economica arrivata in Francia negli anni trenta sull’onda della Grande Depressione, deve riciclarsi per poter mantenere la moglie inferma e il figlio in fasce. È l'America del New Deal che si riflette nella Francia della disoccupazione di massa, un contesto di privazioni dove la rispettabilità borghese è la prima vittima di un sistema economico implacabile. Verdoux, uomo d'ordine e di calcoli precisi, non è un criminale nato, ma un imprenditore del male, un capitalista perverso che applica le stesse logiche di efficienza e profitto della finanza tradizionale all'arte dell'omicidio. Riesce a reinventarsi come antiquario, ma in realtà il lavoro rende poco. Decide allora di accalappiare attempate signore benestanti, impalmarle, per poi intascarne l’eredità. Per fare colpo sulle gentili dame Verdoux usa il suo innegabile fascino corroborato da un raffinato charme che l’uomo sfodera con invidiabile naturalezza, quasi che la sua attività non fosse l'efferatezza ma una meticolosa opera di seduzione e persuasione. La sua attività diviene instancabile transitando da un altare all’altro, da un talamo all’altro, e da un funerale all’altro. Un balletto macabro di ipocrisia e necessità, dove ogni gesto è calcolato con la precisione di un orologiaio, e dove la morte diventa il meccanismo di una macchina da soldi crudelmente efficiente. Proprio quando riesce ad accumulare un discreto gruzzolo che gli consentirebbe una vita agiata viene individuato dai parenti di una sua vittima e quasi arrestato. Sfuggito alla ghigliottina per il rotto della cuffia, dopo rovesci familiari, deciderà spontaneamente di consegnarsi alla polizia.

Verdoux assassino filosofo e poeta non può non affascinare lo spettatore che trova in lui ciò che non ha mai trovato nei personaggi di Chaplin: quella maligna inclinazione che lo porta a perdersi nel piacere oscuro del delitto, quasi un’assuefazione da veleno che induce il pubblico a tifare per quest’uomo garbato e letale. Non è la violenza bruta a muoverlo, ma una distorta logica di sopravvivenza e una spietata analisi della società che lo circonda. Il suo fascino risiede proprio in questa contraddizione, in questo abisso tra l'eleganza dei modi e l'atrocità delle sue azioni. L’etica del delitto subisce una sovversione semantica del significato per mezzo di una sagacia retorica che stordisce e ammalia. Chaplin non giustifica Verdoux, ma lo pone come uno specchio deformante delle contraddizioni del mondo, un anti-eroe che, nel suo cinismo, rivela le ipocrisie del sistema. In questo senso, la sua figura si allinea a quella di altri personaggi letterari che, pur immersi nella criminalità, sono veicoli di una critica sociale più ampia, come il Raskolnikov di Dostoevskij, o il Meursault di Camus, benché con intenti e tonalità molto diverse.

Memorabile in questo senso il monologo finale di Verdoux che rivolto ai giudici che stanno per condannarlo a morte proferisce queste immortali parole: “Per quanto il Pubblico Ministero sia stato parco nel farmi complimenti, nondimeno ha ammesso che ho del cervello. Merci, Monsieur. Ne ho. E per trentacinque anni l’ho usato onestamente. Dopodiché nessuno l’ha più voluto. E allora l’ho utilizzato per conto mio. Se parliamo poi di massacri, non abbiamo autorevoli esempi? In tutto il mondo si fabbricano ordigni sempre più perfetti per lo sterminio in massa della gente, e quante donne innocenti e bambini sono stati uccisi senza pietà, e magari in modo più scientifico! Eh, come sterminatore sono un misero dilettante, al confronto.” Questo epilogo non è solo una brillante esposizione della logica contorta di Verdoux, ma un vero e proprio manifesto chapliniano contro l'ipocrisia della guerra e la violenza istituzionale, temi che l'attore-regista aveva già affrontato in maniera più diretta ne Il Grande Dittatore. Qui, tuttavia, l'accusa è più sottile e incisiva, veicolata dalla voce di un assassino che, pur condannato, si erge a giudice morale di una società che condanna il piccolo crimine ma esalta la strage di massa. La risonanza politica di queste parole, unita alla virata stilistica del film, contribuì non poco all'ostracismo che Chaplin subì negli Stati Uniti negli anni del maccartismo, dove il suo umanesimo critico venne interpretato come sovversivo. Monsieur Verdoux, uscito nel 1947, divenne così un film profetico non solo per il suo contenuto, ma anche per il destino del suo creatore, costretto all'esilio pochi anni dopo. Un capolavoro audace, scomodo e necessario, che continua a interrogarci sulle zone grigie dell'etica umana e sulla violenza insita nella civiltà.

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