Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Monty Python e il Sacro Graal

1975

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Smontare un mito non è un'impresa da poco. Richiede precisione chirurgica, un'affilata lama di irriverenza e una profonda, quasi affettuosa, comprensione di ciò che si intende demolire. Monty Python e il Sacro Graal non è semplicemente un film comico; è un trattato di decostruzione culturale mascherato da farsa medievale, un assalto frontale all'epica condotto da un commando di laureati di Cambridge e Oxford armati di noci di cocco. Se Cervantes, con il suo Don Chisciotte, aveva messo in discussione l'ideale cavalleresco mostrando la tragica dissonanza tra la letteratura e la realtà, i Python compiono l'operazione successiva: fanno a pezzi la letteratura stessa, la riducono a un cumulo di tropi assurdi e ne espongono l'intrinseca fragilità con una risata che riecheggia dal V al XX secolo.

Il film si apre non con una fanfara eroica, ma con un sabotaggio tipografico, una gag sui titoli di testa che serve da dichiarazione d'intenti: nessuna convenzione è al sicuro. Fin dalla prima scena, l'artificio è messo a nudo. Re Artù (Graham Chapman, con la sua impeccabile rigidità da monarca fuori luogo) avanza non al galoppo di un nobile destriero, ma saltellando goffamente mentre il suo scudiero Patsy batte due metà di una noce di cocco per simulare il suono degli zoccoli. Questa non è solo una brillante soluzione a un problema di budget (la produzione non poteva permettersi i cavalli), ma è la metafora fondante dell'intera opera. L'epica è un costrutto, un'illusione sonora, una finzione a cui scegliamo di credere. I Python si rifiutano di crederci e ci invitano a fare lo stesso, mostrando la corda che tiene su il fondale dipinto. L'intero viaggio di Artù non è un'immersione nel mito, ma una costante, esilarante collisione con un mondo che del mito non sa che farsene: contadini marxisti-leninisti impegnati in disquisizioni di teoria politica, guardie francesi la cui abilità retorica nell'insulto supera di gran lunga qualsiasi prodezza marziale, e un Cavaliere Nero che, mutilato di ogni arto, incarna la pervicacia idiota e sublime di ogni dogmatismo.

La struttura del film rifugge la linearità del racconto di formazione o della quest tradizionale. È un'opera picaresca, un mosaico di vignette che sembra procedere per associazioni mentali libere, proprio come uno sketch del Flying Circus. Questa frammentazione narrativa non è un difetto, ma un dispositivo critico. La ricerca del Graal, archetipo del viaggio con uno scopo trascendente, diventa qui un pretesto per una serie di incontri casuali e privi di senso, un'odissea nell'assurdo che ricorda più il teatro di Ionesco o le peregrinazioni di Vladimiro ed Estragone in Aspettando Godot che non i romanzi di Chrétien de Troyes. I cavalieri non superano prove che li temprano e li elevano; inciampano in situazioni che ne espongono la vacuità, l'inettitudine e la ridicola serietà. Sir Galahad il Puro finisce al Castello Antrace popolato da ninfomani, Sir Lancelot il Coraggioso massacra gli invitati a un matrimonio per un fraintendimento, e tutti vengono terrorizzati da un coniglio. Il sacro è costantemente profanato dal banale, l'eroico dall'incompetenza.

In questo processo di smantellamento, un ruolo cruciale è giocato dalle animazioni di Terry Gilliam. Eredi diretti del collage dadaista e della pittura surrealista di Max Ernst, questi intermezzi non sono semplici riempitivi, ma squarci in una dimensione altra, un subconscio visivo del film. Dio non è una visione mistica, ma un ritaglio fotografico di un vecchio barbuto, autoritario e capriccioso, che parla da dentro una nuvola di cartone. Le bestie feroci sono disegni grotteschi che divorano gli eroi. Gilliam tratta l'iconografia medievale – i manoscritti miniati, le mappe, le agiografie – non con rispetto filologico, ma come materia prima per un incubo comico. Questa estetica del "fatto a mano", del bricolage artistico, rafforza l'idea che la storia, come il film, sia qualcosa di assemblato, di imperfetto, di palesemente costruito.

Sotto la superficie della comicità demenziale, il film orchestra una sofisticata critica del linguaggio e dei sistemi di potere che su di esso si fondano. La sequenza dei Cavalieri che dicono "Ni!" è una parabola fulminante sull'arbitrarietà del potere rituale e verbale. Una setta temibile fonda il proprio terrore su una parola priva di senso, chiedendo come tributo un "arbusto" (un roseto nella versione italiana), un oggetto tanto comune quanto incongruo. È una satira del modo in cui le istituzioni – siano esse religiose, politiche o sociali – si ammantano di un linguaggio oscuro e di regole incomprensibili per mantenere il controllo. Allo stesso modo, il dialogo tra Artù e i contadini anarchico-sindacalisti ("Strange women lying in ponds distributing swords is no basis for a system of government!") non è solo una gag, ma un'argomentazione lucidissima che usa la logica moderna per smascherare l'irrazionalità su cui si basa il diritto divino della monarchia.

La natura metacinematografica del Graal è forse il suo aspetto più radicale e duraturo. Il film è dolorosamente, gloriosamente consapevole di essere un film. Personaggi si rivolgono alla macchina da presa, un moderno storico viene ucciso all'interno della narrazione (innescando la sottotrama poliziesca che porterà al finale), e l'animatore del film muore di un attacco di cuore a metà di una sequenza, bloccando l'azione. È un impianto brechtiano applicato alla farsa: il pubblico non può mai abbandonarsi completamente all'illusione, perché i Python continuano a ricordargli che sta guardando un artefatto. L'apice di questo processo è il finale. Proprio quando sta per iniziare la battaglia culminante, una schiera di auto della polizia del XX secolo irrompe sulla scena e arresta Artù e i suoi cavalieri per l'omicidio dello storico. Lo schermo diventa nero. Fine. È un atto di sabotaggio narrativo supremo, la negazione di qualsiasi catarsi o risoluzione epica. La ricerca non ha un compimento, l'avventura è interrotta dalla prosaica realtà. Non c'è Graal, non c'è salvezza; c'è solo un film che finisce.

Realizzato nel 1975, in un'Inghilterra attanagliata da crisi economiche e da una profonda sfiducia nelle istituzioni, Monty Python e il Sacro Graal è figlio del suo tempo. L'anticlericalismo, la sfiducia nell'autorità e il generale senso di disillusione che permeano la pellicola sono il riflesso di un'intera generazione post-sessantottina che guardava con sospetto a tutte le "grandi narrazioni". Non è un caso che il film sia stato finanziato, tra gli altri, da band come i Pink Floyd e i Led Zeppelin: i Python erano l'equivalente intellettuale e comico della controcultura rock.

Alla fine, la grandezza del Graal risiede nel suo essere inesauribile. A ogni visione si scoprono nuovi livelli di lettura, nuove gag nascoste, nuove intuizioni sulla natura della narrazione e della fede. È un'opera che celebra il fallimento, l'inadeguatezza e l'assurdità della condizione umana di fronte a ideali irraggiungibili. Insegna che la risata è l'arma più potente contro il dogma e che, a volte, il modo più onesto per raccontare la ricerca di un oggetto sacro e irraggiungibile è non trovarlo affatto, ma piuttosto essere arrestati dalla polizia moderna mentre si cerca di assaltare un castello occupato da francesi maleducati. Il vero Sacro Graal, forse, era proprio questo: la libertà di dichiarare che l'imperatore, e tutta la sua corte di miti e leggende, non ha vestiti. E nemmeno un cavallo.

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