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Monty Python: il Senso della Vita

1983

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Qual è il senso della vita? Si domanda pomposamente la sgangherata banda dei Monty Python, gruppo comico britannico formato da Graham Chapman, John Cleese, Terry Gilliam, Eric Idle, Terry Jones e Michael Palin. Una domanda che da millenni tormenta filosofi, teologi e anime in pena, qui trasformata non in un esercizio accademico, bensì in un pretesto per una dissacrante incursione nell'assurdo. La loro non è una ricerca trascendentale, ma una smontaggio ludico e spietato delle convenzioni che incorniciano l'esistenza, un ribaltamento goliardico di ogni solennità. In questo senso, il film si erge come un monumento post-moderno alla decostruzione, rifiutando ogni grande narrazione e offrendo in cambio la liberatoria risata del nulla.

Per rispondere a questo annoso quesito i sei costruiscono un film che, partendo dalla nascita dell’uomo e dalla sua assurda mercificazione – come vedremo –, prende in esame tutte le tappe fondamentali di una vita umana, dalla crescita alla senilità, dalla guerra alla religione, per concludere che no, non c’è alcun senso, meglio riderci sopra. Questa constatazione, tutt’altro che nichilista, si traduce in un invito all'epicureismo del quotidiano, a trovare la gioia nell'irrazionale e nell'imprevisto, proprio come i maestri del teatro dell'assurdo insegnavano a fare di fronte all'insensatezza dell'esistenza. L'opera si struttura come un'odissea picaresca attraverso le pieghe più recondite e ridicole dell'esperienza umana, un mosaico caleidoscopico dove ogni pezzo, per quanto sconnesso, contribuisce a dipingere un quadro desolatamente ilare della condizione umana.

Opera buffa divisa in episodi che vede i cabarettisti inglesi impersonare legioni di personaggi bislacchi, in un fuoco di fila di battute e situazioni comiche che scatenano la più feroce ilarità andando a fustigare usi e costumi di un essere umano che si prende troppo sul serio. Non si tratta di una satira superficiale, bensì di un attacco mirato alle fondamenta di istituzioni e ipocrisie consolidate: il sistema educativo britannico, la burocrazia militare, la grettezza della borghesia, la pomposità della finanza, l'arroganza della religione e la grottesca disumanità della medicina. Ogni sketch è una frecciata affilata, un bisturi comico che incide le piaghe del conformismo e dell'autoinganno.

Il film presenta situazioni grottesche ma si ride sempre con un fondo di amarezza, di velato cinismo. È il riso amaro di chi ha compreso la futilità di molte imprese umane, la desolante ripetitività dei vizi capitali e la vanità delle ambizioni. Questa vena agrodolce, tipica dell'umorismo britannico più sofisticato, eleva la comicità dei Python al di là della semplice gag, conferendole una risonanza quasi filosofica. Il grottesco, infatti, non è fine a se stesso, ma uno strumento per rivelare la mostruosità che si annida sotto la patina della normalità.

Commedia, musical, surreale parodia, cabaret, vaudeville. Il Senso della vita dei Monty Python è tutto questo e molto di più: un film che getta uno sguardo irriverente alle fondamenta esistenziali dell’uomo e le strapazza non poco. La sua natura proteiforme riflette le origini televisive del gruppo, abilissimo nel mescolare linguaggi e formati. Le sequenze animate di Terry Gilliam, veri e propri incubi dadaisti che fungono da collante tra gli sketch, sono un inno alla libertà creativa e alla decostruzione visiva, trasformando oggetti comuni in creature minacciose o beffarde. La parodia si estende a generi stessi, dal film di guerra al musical hollywoodiano, con una maestria che trascende la mera imitazione per abbracciare la critica e il commento culturale.

Un caustico umorismo che non fa prigionieri quelli della banda inglese di buontemponi, ma anche un sapiente uso della cinepresa che restituisce un’opera stilisticamente impeccabile, capace di vincere il premio della giuria al festival di Cannes del 1983. Un riconoscimento significativo per un film che, con la sua irriverenza, osava sfidare le convenzioni cinematografiche e i benpensanti. La regia di Terry Jones, coadiuvato dall'immaginifico estro di Gilliam, non si limita a inquadrare la gag, ma costruisce mondi, amplifica l'assurdo e orchestra il caos con precisione millimetrica. Ogni scena, anche la più folle, è curata nei dettagli, dimostrando una professionalità inaspettata dietro la facciata della pura anarchia.

Alcune scene restano davvero memorabili, scolpite nell'immaginario collettivo per la loro audacia e la loro viscerale comicità.

Il ciccione (interpretato da un irresistibile Terry Jones) che entra nel ristorante di lusso e chiede un secchio per vomitare, poi ordina tutte le portate del menu per esplodere con l’ultima sfogliatina inondando gli astanti con vomito e organi frollati. Questa sequenza, celeberrima e nauseabonda, è un inno alla gluttonia e al consumismo sfrenato, una metafora della società occidentale che si ingozza fino all'autodistruzione. Non è solo shock-value, ma una rappresentazione cruda e indimenticabile dell'eccesso e delle sue inevitabili, ripugnanti conseguenze, un monito biblico travestito da farsa culinaria.

O il miracolo della nascita con la gestante che viene portata in sala parto dove transitano torme di curiosi che seguono l’evento con telecamere e macchine fotografiche mentre viene allontanato il marito perché persona non interessata all’evento. Qui la critica è rivolta alla disumanizzazione dell'esperienza medica, trasformata in uno spettacolo voyeuristico e burocratico, dove il coinvolgimento emotivo del padre è subordinato a una prassi assurda. L'innocenza e la sacralità del momento vengono demolite dalla frivolezza mediatica e dalla rigidità del sistema, un'amara riflessione sulla perdita di autenticità nel mondo moderno. E come dimenticare la lezione di sesso nell'aula scolastica, con il professore che si accoppia con la moglie davanti agli studenti, o l'esilarante segmento "Find the Fish" che parodia l'alienazione lavorativa in un'insulsa azienda finanziaria, preludio all'epopea pirata di "Crimson Permanent Assurance". La coerenza tematica del film, nonostante la frammentazione narrativa, risiede proprio in questa instancabile messa in discussione di ogni tabù e dogma, elevando Il Senso della Vita da semplice raccolta di sketch a manifesto iconoclasta, un'opera senza tempo che continua a farci riflettere, tra una risata e l'altra, sulla grande e ridicola commedia che è l'esistenza.

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