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Moon

2009

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Film low-budget di ottima fattura, realizzato con pochissimi mezzi (un budget totale di cinque milioni di dollari) ma affascinante nella sua idea di fondo del Doppelgaenger e delle paranoiche implicazioni nello scoprire un altro se stesso. Non si tratta solo di un mero sdoppiamento fisico, bensì di un vero e proprio smarrimento ontologico, una vertigine filosofica che interroga la natura stessa dell'identità: cosa ci rende unici? È la memoria, l'esperienza, la coscienza individuale o qualcosa di più profondo e indefinibile? Il film si insinua in queste pieghe esistenziali, evocando echi di opere letterarie come "Il Sosia" di Dostoevskij o temi cari alla fantascienza più speculativa, da Philip K. Dick a J.G. Ballard, dove la realtà è un costrutto malleabile e l'individuo un'entità frammentata. Il quesito è universale: se esiste un altro me, sono io ancora irripetibile, o solo una copia tra tante? E quale versione di me è quella "autentica"?

Duncan Jones (figlio di David Bowie) scrive e dirige una storia intrigante che ci pone al cospetto di una lenta deriva dell’io che cessa di essere univoco e irripetibile rifrangendosi in pura molteplicità, come un raggio che attraversi un prisma. La sua provenienza familiare, lungi dall'essere una mera curiosità aneddotica, sembra infondere nel film una sensibilità particolare per l'alienazione, la solitudine cosmica e la costante ricerca di identità, temi che hanno permeato gran parte della carriera artistica del padre. In "Moon", Jones dimostra una maturità registica sorprendente, trasformando le limitazioni economiche in un potente catalizzatore creativo.

Girato interamente in studio dove è stata ricreata la base lunare, con la maggioranza delle scene interpretate da un unico attore, questo film colpisce per la naturalezza della fotografia di Gary Shaw, con colori caldi e soffocanti, perfettamente complementari alla narrazione. L'uso sapiente di set fisici, quasi claustrofobici, e di effetti speciali pratici, dona al film una tangibilità e un realismo che spesso mancano nelle produzioni ad alto budget saturate di CGI. Le tonalità ambrate e i riflessi metallici degli interni della base lunare, anziché offrire calore domestico, generano un senso di oppressione e isolamento, come se la struttura stessa fosse una prigione dorata. La sporcizia patinata degli ambienti, il cibo liofilizzato, l'assenza di orizzonti se non quelli artificiali, tutto contribuisce a costruire un universo credibile e al contempo disumanizzante, dove la tecnologia più avanzata si sposa con una desolante quotidianità.

In un futuro imprecisato un’azienda statunitense, la Lunar, ha scoperto il modo di produrre energia pulita sfruttando i materiali minerali sulla Luna. È un pretesto narrativo semplice, ma denso di implicazioni. Il film diventa così una critica sottile ma pungente all'avidità corporativa e alla disumanizzazione del lavoro nell'era del capitalismo avanzato. La Lunar non è un'entità benevola, bensì un'ombra onnipresente e indifferente al destino dei suoi dipendenti, visti come meri ingranaggi sacrificabili in un meccanismo di profitto.

A sorvegliare il lavoro dei macchinari un unico tecnico, Sam Bell, aiutato da un computer che sovrintende le mansioni tecniche della base lunare, dotato di una voce umana con cui comunica con Sam (vi ricorda qualcosa? Il rimando a Kubrick pare evidente). Gerty, la voce robotica, non è però il malevolo e paranoico HAL 9000 di "2001: Odissea nello spazio"; è, al contrario, un'intelligenza artificiale che sembra provare una forma di empatia programmata, o forse una logica funzionale che, nell'estrema solitudine di Sam, si avvicina all'affetto. La sua serie di emoticon che si illuminano sul suo schermo aggiunge un tocco di geniale, e inquietante, personalità. La relazione tra Sam e Gerty diventa il cuore emotivo del film, un legame inatteso che sfida le aspettative generate dal ben noto archetipo di HAL. L'isolamento siderale di Sam richiama inoltre altre opere che esplorano la psiche umana ai confini dello spazio, come il profetico "Solaris" di Tarkovskij, dove la solitudine e il confronto con l'ignoto generano incubi personali e riflessioni sulla natura della realtà.

A pochi giorni dal suo rientro sulla terra dopo un lungo periodo di tre anni trascorso nella base lunare Sam, dopo un incidente, scopre per una tragica fatalità, un altro se stesso presente nella base. È l’inizio di un incubo psicologico senza fine, fino al tragico disinganno finale. La rivelazione non è un colpo di scena fine a se stesso, ma il detonatore di un'esplorazione profonda della condizione umana, della fragilità dell'esistenza e dell'illusione della libertà personale. Il film ci costringe a confrontarci con la paura primordiale di essere sostituibili, di non essere mai stati unici, ma solo copie programmate per uno scopo.

Un’opera davvero meritoria soprattutto per due aspetti: la recitazione eccellente di Sam Rockwell e il soggetto originale sviluppato con audacia teatrale e raffinata tecnica introspettiva sul protagonista. Rockwell offre una performance attoriale magistrale, un vero tour de force che lo vede interagire quasi esclusivamente con se stesso in diverse incarnazioni. La sua capacità di trasmettere la progressiva disintegrazione psicologica, la confusione, la disperazione e, infine, una fragile determinazione, è il pilastro su cui l'intera narrazione si regge. Ogni sguardo, ogni tic, ogni variazione nella postura contribuisce a definire le sottili, ma cruciali, differenze tra le diverse versioni di Sam. Il film, pur essendo fantascienza, si rivela essere un dramma psicologico intimo, quasi da camera, che utilizza lo scenario lunare come una lente d'ingrandimento per esplorare le profondità dell'animo umano. È un monologo interiore che si trasforma in un dialogo con l'altro-da-sé, un’odissea claustrofobica che ci lascia con interrogativi laceranti sulla dignità dell'essere e sulla tirannia del sistema.

Un piccolo cult di fantascienza, "Moon" si impone non solo per la sua originalità e la sua estetica avvolgente, ma soprattutto per la sua capacità di far vibrare le corde più sensibili dell'identità e della condizione esistenziale, dimostrando che l'intelligenza narrativa e la profondità tematica valgono infinitamente di più di qualsiasi budget faraonico.

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