Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Moonlight

2016

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Il cinema, nella sua forma più pura, non racconta: mostra. Non spiega: evoca. E poche opere contemporanee incarnano questo credo con la fragile, devastante potenza di Moonlight di Barry Jenkins. Un film che si insinua sotto la pelle non con la forza di un urlo, ma con la persistenza di un sussurro, un poema visivo in tre canti che esplora la costruzione di un’identità maschile, nera e queer nel silenzio assordante di un mondo che esige solo rumore. Dimenticate la linearità rassicurante del bildungsroman classico, quello alla Boyhood di Linklater, che accumula anni come strati di vernice. Jenkins opera per sottrazione, per ellissi vertiginose, scolpendo la sua narrazione nel vuoto che intercorre tra tre istantanee cruciali della vita di Chiron: Little, Chiron, Black. Tre nomi, tre maschere, tre stadi di una metamorfosi imposta dalla crudeltà e santificata da rari, abbaglianti lampi di grazia.

L'ispirazione, l'opera teatrale inedita In Moonlight Black Boys Look Blue di Tarell Alvin McCraney, è già di per sé un atto di trasfigurazione. Jenkins non si limita a un adattamento fedele; egli traduce la parola in un linguaggio puramente cinematografico, un'esperienza tattile e sinestetica. Il suo cinema è un cinema del corpo. Il corpo esile e spaventato di Little (Alex Hibbert) che si rannicchia per sfuggire ai bulli; il corpo teso e angolare dell'adolescente Chiron (Ashton Sanders), una molla caricata di rabbia e desiderio repressi; e infine il corpo scultoreo e corazzato di Black (Trevante Rhodes), un'armatura di muscoli e oro costruita per proteggere il bambino terrorizzato che ancora si nasconde all'interno. Questa progressione fisica è la vera spina dorsale del film, una narrazione somatica che dice molto più di qualsiasi dialogo.

La grammatica visiva di Jenkins e del suo direttore della fotografia, James Laxton, deve un debito evidente e glorioso a Wong Kar-wai. L'aria umida e satura di Miami, le luci al neon che si sciolgono sulla pelle scura, la camera a mano che danza attorno ai personaggi con un'intimità quasi predatoria, tutto richiama la tessitura sensoriale di In the Mood for Love o Happy Together. Come nel cinema del maestro di Hong Kong, i sentimenti più profondi non vengono mai verbalizzati, ma affidati a un gioco di sguardi, a una mano che esita, a una nuca esposta nella penombra. C'è una scena, quella sulla spiaggia tra il Chiron adolescente e il suo amico Kevin, che è pura poesia cinetica: la sabbia, il suono delle onde, il tremore delle mani. È un momento di scoperta che non ha bisogno di parole per comunicare il suo peso sismico nella vita di Chiron. È un'epifania silenziosa, un punto di non ritorno catturato con la grazia di un pittore.

Ma se l'influenza di Wong Kar-wai è la melodia, il contrappunto è qualcosa di più crudo, quasi documentaristico, che ricorda la visceralità di una Claire Denis in Beau Travail. Entrambi i registi sono ossessionati dalla mascolinità come performance, dal corpo maschile come luogo di conflitto tra disciplina esteriore e tumulto interiore. La corazza di Black, con la sua auto vistosa, la griglia dorata sui denti e la posa da spacciatore, è una citazione quasi letterale, per quanto forse involontaria, dell'unica figura paterna positiva della sua vita, lo spacciatore Juan (un Mahershala Ali di statuaria e dolente umanità). Chiron costruisce la sua identità adulta sul modello dell'uomo che gli ha insegnato a nuotare, in una delle scene più liriche e potenti del cinema recente. Un battesimo laico nelle acque dell'Atlantico, dove per la prima volta un uomo lo tocca con gentilezza, sostenendolo, dicendogli: "A un certo punto, devi decidere da solo chi vuoi essere". Un'ironia tragica, visto che Chiron diventerà una copia carbone dell'esteriorità di Juan, senza ereditarne la saggezza interiore.

La colonna sonora di Nicholas Britell merita un capitolo a sé. L'uso della tecnica hip-hop "chopped and screwed" – che consiste nel rallentare e tagliare brani musicali – applicata a partiture di musica classica è un colpo di genio meta-testuale. È la rappresentazione sonora dell'identità frammentata di Chiron: una sensibilità classica, delicata, fatta a pezzi e distorta dalla pressione dell'ambiente circostante. È l'anima del protagonista tradotta in musica, una melodia spezzata che lotta per ritrovare la sua forma originale.

Il film si inserisce in un contesto culturale preciso, quello dell'America post-Obama, in un momento in cui il dibattito sulla rappresentazione delle minoranze a Hollywood raggiungeva il suo apice con il movimento #OscarsSoWhite. La vittoria di Moonlight come Miglior Film agli Oscar 2017, al di là del caotico scambio di buste con La La Land, ha rappresentato un momento di svolta non tanto politico, quanto estetico. Ha dimostrato che un'opera d'arte intima, formalmente audace, con un cast interamente nero e una tematica queer, poteva trascendere ogni etichetta e parlare un linguaggio universale. Non è un "film a tema", non è un pamphlet sociologico. È l'equivalente cinematografico di un romanzo di James Baldwin, come La camera di Giovanni, dove l'analisi della razza e della sessualità non è mai un fine, ma il prisma attraverso cui esplorare la condizione umana universale: la ricerca dell'amore, dell'accettazione e di un luogo nel mondo da poter chiamare proprio.

L'ultimo atto del film, l'incontro tra Black e un Kevin adulto (André Holland) in una tavola calda, è un capolavoro di tensione e catarsi. Per la prima volta, la corazza di Chiron inizia a scricchiolare. Il dialogo è scarno, quasi banale. "Mangia," dice Kevin. "Ti ho preparato questo." Ma in quel gesto, in quel pasto offerto, c'è un'intera vita di desiderio inespresso. La vulnerabilità riemerge quando Black, con la voce rotta, confessa: "Sei l'unico uomo che mi abbia mai toccato". È una frase che fa crollare l'intera impalcatura del machismo che si era costruito addosso. L'inquadratura finale, che fonde il volto di Black con quello del piccolo Little che guarda verso di noi, bagnato dalla luce blu della luna, chiude il cerchio. È la rivelazione che, nonostante l'armatura, le cicatrici e gli anni di silenzio, il bambino fragile che cercava solo un abbraccio è ancora lì, in attesa di essere visto.

Moonlight è un'opera che rifiuta la facile categorizzazione. È un film d'autore che sembra un dipinto di Caravaggio per la sua gestione drammatica del chiaroscuro, dove i corpi emergono dall'oscurità illuminati da una luce quasi divina; è un poema sinfonico sull'identità maschile; è una storia d'amore sussurrata attraverso decenni di distanza. Barry Jenkins ha realizzato un'opera che non chiede di essere capita con la testa, ma sentita con lo stomaco. È un film che ci ricorda che, a volte, la vera forza non risiede nell'urlare la propria identità al mondo, ma nell'avere il coraggio, anche solo per una notte, di mostrarsi a un'altra anima per quello che si è veramente, nudi e tremanti sotto la luce della luna.

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