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Mulholland Drive

2001

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Media: 5.00 / 5

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Un film semplicemente conturbante, spiazzante, che non concede punti di riferimento. Un’opera che non si limita a confondere, ma che sfida la percezione stessa della realtà, invitando lo spettatore a un viaggio intimo e destabilizzante. David Lynch, un demiurgo postmoderno che da decenni scava nei recessi più oscuri dell'inconscio collettivo, realizza forse il suo film più bello ribaltando continuamente il piano sequenza della realtà e stravolgendo l’incedere cronologico di una canonica thriller story. Non è solo un esercizio di stile, ma una discesa negli inferi di un’ambizione malriposta e di un amore non corrisposto, vestita con gli abiti luccicanti e corrotti della "fabbrica dei sogni" hollywoodiana. L'eco di capolavori noir come Sunset Boulevard di Billy Wilder si manifesta in questa narrazione di sogni infranti, ma Lynch la eleva a una dimensione surreale e onirica, trasformando la critica sociale in un’esplorazione psicanalitica.

La genesi del film, nato dalle ceneri di un pilot televisivo mai trasmesso, è già di per sé un aneddoto rivelatore: questa "resurrezione" ha forse infuso nell'opera una struttura frammentata, episodica, che ne amplifica l'enigmaticità e la profondità stratificata. Rita ha appena avuto un tremendo incidente stradale di cui risulta essere l’unica sopravvissuta. Vaga per il centro di Los Angeles in uno stato di semi-incoscienza, soffrendo di un’apparente amnesia che le ha cancellato il passato. Il suo trauma non è solo fisico, ma metafisico, una tabula rasa su cui la narrazione comincia a imprimere simboli e premonizioni. Si stabilisce in casa di Betty, una giovane donna appena giunta in città con la valigia piena di speranze e il miraggio del successo cinematografico.

Betty prende a cuore la sua situazione finché tra le due donne non comincia ad attuarsi una sorta di fusione, un’osmosi identitaria che trascende il legame saffico per toccare corde più profonde e disturbanti. La vita dell’una confluisce in quella dell’altra, tra sogno e realtà, in un turbine di eventi che confonde i piani e suggerisce una relazione che va ben oltre il contingente. Questa metamorfosi è il cuore pulsante del film, un’esplorazione della fluidità dell'identità e del desiderio, dove l'amore, l'ossessione e la delusione si intrecciano in un nodo gordiano. Lynch attua un vero e proprio scollamento del piano reale attraverso un graduale sgretolamento delle certezze che la narrazione sembra dare allo spettatore, come un mago che rivela il trucco solo dopo aver incantato e disorientato il pubblico.

La sua maestria si manifesta nell'uso di una logica onirica, dove gli archetipi e i simboli assumono un peso specifico maggiore degli eventi concreti. La misteriosa chiave blu, la scatola enigmatica, il "Cowboy", le anziane creature che emergono dall'oscurità: ogni elemento è un tassello di un mosaico che si compone non per linearità, ma per assonanze emotive e subconscie. La celeberrima scena del Club Silencio, con il suo presentatore che annuncia che "it's all an illusion", non è solo un momento di straordinaria bellezza e inquietudine, ma una vera e propria metareflexion sul film stesso, un avvertimento allo spettatore sulla natura performativa e illusoria di ciò che sta osservando.

Proprio questa dimensione di assoluta incertezza proietta la razionalità in una sorta di nebbia mentale dove deduzione e inferenze sembrano strumenti fuori registro. Lo spettatore è costretto ad abbandonare le ancore della narrazione classica per abbracciare un’esperienza più viscerale, quasi sensoriale. È un cinema che si appella non alla logica, ma all'intuizione, all'emozione latente. La colonna sonora di Angelo Badalamenti, evocativa e malinconica, avvolge ogni scena in un velo di sogno e presagio, mentre la fotografia, intrisa di blu profondi e rossi vibranti, dipinge Los Angeles non come la città angelica, ma come un purgatorio notturno di desideri insoddisfatti.

La mistificazione più grande poi è venire a sapere che tutto quello che si vede ha un senso, ogni concetto ha la propria collocazione nella tassonomia finale dell’opera. Non è un caos casuale, ma un disordine organizzato dal dolore, dalla frustrazione e dalla disperazione di un’anima infranta. La rivelazione finale è un pugno nello stomaco, uno strappo violento dal velo di Maya che il film ha sapientemente tessuto. È il risveglio brusco da un incubo lucido, dove i desideri più reconditi e le paure più profonde si materializzano prima di precipitare nella cruda realtà. Questa transizione, dal sogno all'incubo e infine alla veglia dolorosa, è ciò che eleva Mulholland Drive da semplice rompicapo a meditazione profonda sulla psiche umana e sulle illusioni che costruiamo per sopravvivere, e che poi ci distruggono.

Da vedere e rivedere, e scrivere appunti sulle infinite possibilità ermeneutiche che offre ad ogni visione. Ogni passaggio, ogni sguardo, ogni silenzio lynchiano si carica di nuove sfumature, invitando a un dialogo continuo con l'opera. È un film che non si consuma, ma si espande, si rivela, muta forma nella memoria, lasciando un’impronta indelebile e la sensazione di aver sfiorato i margini della follia e della bellezza in un unico, vertiginoso abbraccio cinematografico.

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