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Sfida Infernale

1946

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Regista

Ford al suo terzo film western delinea la sua poetica attraverso il mito della sparatoria di Tombstone, leggendario evento ripreso tra gli altri anche da Sturges in Sfida all’Ok Corral. Ma mentre il film di Sturges, pur pregevole, si concentra sulla concitazione e sull'inevitabilità della resa dei conti, Ford eleva l'episodio a pietra angolare di una più vasta riflessione sulla nascita della civiltà americana, sulla transizione dal caos selvaggio alla fragile, ma necessaria, imposizione della legge. Non è solo la cronaca di un conflitto, ma la genesi di un archetipo, la genesi di una nazione.

My Darling Clementine è un’opera che alterna possenti digressioni icastiche a momenti di intima introspezione, dove l’occhio inquieto di Ford scava nei recessi emozionali del protagonista mettendone a nudo contraddizioni e pulsioni umane. Quelle digressioni icastiche, infatti, sono autentiche pennellate di luce e ombra, quadri in movimento che attingono alla grandiosità dei paesaggi del Southwest, e in particolare alla maestosità quasi scultorea della Monument Valley, che qui, sotto la fotografia magistrale di Joseph MacDonald, non è solo sfondo, ma personaggio a pieno titolo, con le sue formazioni rocciose che si ergono come cattedrali naturali, silenziose testimoni dell'eterna lotta tra l'uomo e la frontiera. Ford infonde a ogni inquadratura una solennità quasi biblica, trasformando il selvaggio West in un palcoscenico di epica dimensione per drammi tanto privati quanto universali. L'introspezione, d'altra parte, si manifesta nella riluttanza del protagonista, nel suo cammino da semplice mandriano a sceriffo, un percorso non dettato da ambizione, ma dalla gravità del dolore e dalla necessità morale.

Wyatt Earp è deciso a vendicare la morte del fratello avvenuta per mano di una banda di fuorilegge, i famigerati Clanton. Per farlo non esita a farsi eleggere sceriffo, assumendosi un fardello che va ben oltre la semplice rappresaglia. Il suo non è un eroismo smargiasso, ma una dignità sommessa, un senso del dovere che lo eleva al di sopra della meschinità della vendetta personale per abbracciare un ideale di giustizia e ordine. L'arrivo di Earp a Tombstone, con i suoi fratelli e il loro modesto allevamento, è un'immagine di vulnerabilità e aspirazione alla quiete che verrà brutalmente infranta. La perdita, in Ford, è spesso il catalizzatore della nascita di un eroe, non un eroe del muscolo, ma della coscienza.

Si metterà sulle tracce della banda e la affronterà a Tombstone, potendo contare sull’aiuto di un dottore alcolizzato e della sua fida Colt. Doc Holliday, interpretato da un magnifico Victor Mature, non è qui il bandito romantico o il mero braccio armato, ma una figura shakespeariana, un intellettuale consumato dalla malattia e dal cinismo, la cui amicizia con Wyatt Earp è intessuta di un rispetto reciproco che trascende le loro divergenze. È il malinconico contraltare alla granitica determinazione di Earp, un'anima lacerata tra la dissolutezza e un residuo senso dell'onore, la cui presenza conferisce al dramma una stratificazione emotiva ancora più profonda. La danza tra Wyatt e Clementine nel saloon, così come la sequenza della chiesa in costruzione, sono emblemi di questa nascente civiltà, piccoli, commoventi spiragli di un futuro migliore, in un mondo ancora dominato dal fango e dalla violenza. Ford non mostra solo gli spari, ma le fondamenta su cui si costruirà una società. La dicotomia tra la raffinata Clementine Carter, simbolo della civiltà che arriva dall’Est con le sue promesse di istruzione e cultura, e la passionale e tragica Chihuahua, incarnazione della bellezza selvaggia e indomita del West, aggiunge ulteriori sfumature al quadro sociale ed emotivo, ponendo l'accento sulla scelta tra il progresso e l'arcaismo, tra la legge e l'anarchia.

Davanti a un tale film si ha la netta impressione di assistere a qualcosa di velatamente grandioso, un senso di grandezza in fieri che aleggia per tutta l’opera e le dona un fascino ineguagliabile, quasi mistico. Questa grandezza non è ostentata, ma scaturisce dalla cura per i dettagli, dalla potenza visiva di ogni singolo fotogramma che si stampa nella memoria come un'incisione. È il respiro di un'epopea che si sta scrivendo, la sensazione di essere testimoni privilegiati della genesi di un mito americano. Ford, con la sua inconfondibile lente, non si limita a narrare, ma evoca, trasformando un episodio storico in una leggenda universale. Ogni gesto, ogni silenzio, ogni sguardo, soprattutto quelli indimenticabili di Henry Fonda nei panni di Earp, contribuiscono a creare questa aura quasi sacra, dove il paesaggio stesso sembra vibrare di un significato profondo.

Ford, maestro di un certo tipo di West, una sorta di zona dell’animo in chiaroscuro, ci accompagna come un elegante anfitrione attraverso le sue avvincenti storie e noi, docilmente, ci lasciamo guidare più che volentieri in questo selvaggio mondo. Questo "chiaroscuro" fordiano non è solo una questione di illuminazione cinematografica, ma una cifra stilistica che permea l'intera narrazione, evidenziando le ambiguità morali, le fatiche della civilizzazione, la malinconia intrinseca di un mondo che sta scomparendo per far posto a qualcosa di nuovo, e non necessariamente migliore. È il West della fatica, del sudore, dei piccoli trionfi e delle grandi perdite. Ford ci offre non un'illusione, ma una visione profonda e complessa delle radici americane, forgiate nel crogiolo della frontiera. Il suo sguardo, post-bellico, era intriso di una ricerca di valori fondanti, di un'America che potesse riscoprire la propria essenza nella semplicità e nella durezza della sua genesi. In questo capolavoro del 1946, Ford non solo definisce i contorni del western classico, ma ne eleva la statura a dramma universale sull'uomo, sul suo destino e sulla sua inesauribile, e talvolta dolorosa, ricerca di un luogo da chiamare casa.

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