My Fair Lady
1964
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Regista
My Fair Lady non è semplicemente un musical; è un'opulenta e argutissima macchina da cinema, un trionfo di sfarzo e intelligenza che prende la struttura della commedia romantica e la eleva a una sofisticata indagine sulla classe, il linguaggio e la guerra dei sessi. Basato sul capolavoro teatrale Pigmalione di George Bernard Shaw, il film di George Cukor è la prova che si può essere al contempo sfarzosi e profondi, popolari e intellettuali. È un'opera che abbaglia l'occhio con i suoi costumi e le sue scenografie, ma che, sotto la superficie smaltata, nasconde la prosa affilata e la critica sociale di uno dei più grandi drammaturghi di lingua inglese.
La premessa è la scintilla di un mito antico aggiornato all'Inghilterra edoardiana. Il professor Henry Higgins, un fonetista arrogante e misantropo, scommette con il collega Colonnello Pickering di poter trasformare una sguaiata fioraia cockney, Eliza Doolittle, in una duchessa presentabile nell'alta società, semplicemente insegnandole a parlare "correttamente". Higgins è un Pigmalione moderno, un scultore del suono che vede in Eliza non una persona, ma materia grezza, un blocco di marmo linguistico da cesellare a sua immagine e somiglianza. La sua presunzione è quella di poter creare una "donna nuova", cancellandone le origini e l'identità attraverso la sola imposizione della sua volontà e della sua scienza.
In questo, Cukor si confronta con il grande mito del "buon selvaggio", un'idea che da Rousseau, passando per Truffaut con il suo L'Enfant Sauvage, ha attraversato la cultura occidentale. Eliza, all'inizio, è proprio questo: una creatura del popolo, non corrotta dall'ipocrisia dei salotti, dotata di una vitalità e di un'onestà brutali che affascinano e disgustano al tempo stesso il mondo rigido e compassato di Higgins. Ma Cukor, uomo di rara intelligenza e finezza, sublima questo archetipo con la sua inarrivabile arte. Il suo film non è un semplice racconto sulla civilizzazione di una primitiva. La trasformazione è una strada a doppio senso. Mentre Higgins insegna a Eliza a parlare, Eliza, con la sua resilienza, la sua rabbia e la sua crescente consapevolezza, insegna a Higgins a sentire. La sua creatura gli si ribella, gli rinfaccia la sua crudeltà e la sua povertà emotiva, dimostrando che possedere un lessico perfetto non significa avere un'anima. A differenza del tragico Victor di Truffaut, che rimane per sempre sospeso tra due mondi, Eliza riesce a trascendere sia le sue origini che il suo creatore, forgiando un'identità nuova che è sintesi delle due esperienze. È questa la soluzione di Cukor: la vera nobiltà non è né nello stato di natura né nella civiltà, ma nella capacità di integrare intelligenza e sentimento.
My Fair Lady arriva in un momento in cui l'età d'oro del musical hollywoodiano stava iniziando a sbiadire. Con un budget colossale e un'ambizione smisurata, il film fu una dichiarazione di intenti: il musical poteva essere ancora il re dell'intrattenimento, ma poteva anche essere grande arte. La sua rivoluzione fu quella dell'integrazione e della serietà drammaturgica. Cukor, maestro nel dirigere gli attori e nell'adattare testi complessi, tratta il materiale di Lerner e Loewe non come una scusa per dei numeri musicali, ma come un'estensione naturale della prosa caustica di Shaw. Le canzoni non interrompono la storia, sono la storia. "The Rain in Spain" non è solo un esercizio di dizione, è il momento esaltante di una liberazione psicologica. "I've Grown Accustomed to Her Face" non è una canzone d'amore, è il monologo di un uomo che realizza troppo tardi di essersi innamorato. L'apice visivo di questa fusione tra arte e spettacolo è la leggendaria sequenza delle corse di Ascot, curata da Cecil Beaton. Con i suoi costumi quasi scultorei in bianco e nero e i suoi movimenti rigidamente coreografati, la scena non è solo un trionfo di design, ma una satira feroce sulla vacuità e l'assurdità dell'alta società.
E al centro di tutto c'è Audrey Hepburn, diva inarrivabile, eterea icona di un tipo di cinema glamour e sofisticato. Il suo casting fu notoriamente controverso, soffiando il ruolo a Julie Andrews che lo aveva originato a Broadway. Eppure, nonostante la sua voce canora sia stata quasi interamente doppiata da Marni Nixon, la sua performance è un miracolo di trasformazione. La sua Eliza iniziale, sporca, sgraziata e quasi ferina, è tanto convincente quanto la sua versione finale, un modello di eleganza e portamento. Cukor sfrutta l'icona-Hepburn in modo geniale: il pubblico sa già che sotto quella maschera di fuliggine si nasconde l'epitome della grazia, e questo rende il processo di trasformazione ancora più catartico e soddisfacente. La sua recitazione è una testimonianza della sua intelligenza come attrice, capace di incarnare la vulnerabilità, la rabbia e la determinazione di una donna che lotta non solo per imparare a parlare, ma per trovare la propria voce. In questo film, Audrey Hepburn non interpreta solo Eliza Doolittle; interpreta il potere stesso del cinema di creare bellezza e di trasformare la realtà. E per questo, insieme a tutto il resto, My Fair Lady rimane un'opera la cui perfezione, arguzia e magnificenza sono semplicemente indiscutibili.
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