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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Naked - Nudo

1993

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Media: 4.60 / 5

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Regista

Un torrente verbale emerge dal buio di un vicolo di Manchester, e con esso, il cinema britannico non sarà più lo stesso. Johnny, l'antieroe o forse il non-eroe di "Naked" di Mike Leigh, non entra in scena: erutta. È una forza della natura nichilista, un buco nero di carisma caustico che inghiotte ogni barlume di speranza, un profeta del nulla armato solo di un'eloquenza torrenziale e di una disperazione cosmica. La sua performance, incarnata da un David Thewlis che non recita ma si trasmuta, è una delle più elettrizzanti e terrificanti discese nella psiche maschile mai catturate su pellicola. È l'Uomo dal Sottosuolo di Dostoevskij catapultato in una Londra di fine millennio, un bardo dell'apocalisse che canta la sua serenata alla fine della storia tra i rifiuti e le anime perse di un impero in decomposizione.

Il film, partorito dal celebre metodo Leigh basato sull'improvvisazione e sulla costruzione corale dei personaggi, è una periegesi infernale. Dopo un incontro sessuale brutalmente ambiguo che lo costringe a fuggire da Manchester, Johnny approda a Londra, nell'appartamento della sua ex, Louise. Ma questo non è un rifugio; è solo il punto di partenza per una lunga notte dell'anima, un vagabondaggio picaresco attraverso una città che Leigh e il suo direttore della fotografia, Dick Pope, dipingono con la tavolozza di un Francis Bacon. Non è la Londra delle cartoline, ma un purgatorio di strade umide, interni squallidi e non-luoghi illuminati da una luce malata, al neon. È una topografia dell'anima che riflette perfettamente il malessere post-thatcheriano, il vuoto lasciato dal crollo delle grandi narrazioni ideologiche e la frammentazione sociale di un'Inghilterra che aveva smarrito la propria identità.

Johnny si muove in questo paesaggio come un moderno Diogene, senza botte né lanterna, ma con una sigaretta perennemente accesa e una curiosità famelica e predatoria. Ogni incontro è un duello filosofico, un'interrogazione socratica al contrario, dove non si cerca la verità ma si conferma l'assurdità. Dal guardiano notturno che sogna una vita diversa, alla ragazza punk senza meta, fino alla segretaria Sophie, disperatamente sola e vulnerabile, Johnny li attira nella sua orbita, li seduce con la sua intelligenza fulminante e poi li lascia svuotati, più confusi e feriti di prima. La sua misoginia è palese, quasi patologica, ma Leigh non la usa come un semplice tratto caratteriale; è il sintomo più virulento della sua malattia esistenziale, un odio per la debolezza e la dipendenza che vede negli altri e che, in fondo, non può sopportare in se stesso. In questo, ricorda i protagonisti logorroici e misantropi di Céline, la cui verbosità è una forma di vomito dell'anima, un tentativo di espellere il disgusto per il mondo e per sé.

A differenza del Travis Bickle di "Taxi Driver", altro angelo sterminatore metropolitano, Johnny non è un silenzioso accumulatore di rabbia. La sua violenza è prima di tutto intellettuale. Le sue tirate spaziano dalla numerologia biblica alle teorie del complotto, dal Libro della Rivelazione alla fisica quantistica, tessendo una cosmogonia paranoica in cui l'umanità è un esperimento fallito, un codice a barre in attesa della data di scadenza. È un predicatore senza fede, un intellettuale senza cattedra che tiene le sue lezioni nei vicoli più bui. C'è qualcosa di beckettiano in questa attesa perenne di una fine che non arriva mai, in questi dialoghi che girano a vuoto come i personaggi di "Aspettando Godot", intrappolati in un paesaggio desolato che qui prende la forma di una metropoli indifferente.

La genialità del film risiede nel suo rifiuto di fornire una bussola morale. Leigh ci costringe a passare quasi due ore in compagnia di un uomo a tratti mostruoso, ma ci nega la facile consolazione di poterlo semplicemente condannare. Attraverso le crepe della sua armatura di cinismo, intravediamo lampi di un'intelligenza ferita, di una sensibilità così acuta da essere diventata insopportabile. È un Amleto dei bassifondi, privato della sua corte e del suo regno, a cui non resta che un monologo infinito sulla putrescenza non della Danimarca, ma dell'intero universo.

Il contrappunto a Johnny è una delle figure più agghiaccianti del cinema moderno: Jeremy, il padrone di casa yuppie e sadico interpretato da un gelido Greg Cruttwell. Se Johnny è il caos, l'anarchia intellettuale, Jeremy è il male sistemico, ordinato e vestito in abiti firmati. Condivide con Johnny la stessa intelligenza tagliente e la stessa misoginia predatoria, ma la sua è levigata dal privilegio, esercitata dal pulpito del potere economico. Jeremy non ha bisogno di sproloqui apocalittici; il suo mondo funziona perfettamente. Il loro confronto è il cuore nero del film: due facce della stessa medaglia di un patriarcato tossico, una disperata e l'altra compiaciuta. Jeremy è ciò che Johnny potrebbe diventare se barattasse la sua rabbia per il comfort, il suo nichilismo per il sadismo. È il vero demone della storia, un Mefistofele in mocassini che gode della sofferenza altrui non per disperazione, ma per puro, annoiato diletto.

"Naked" non offre catarsi. L'ultima scena è un capolavoro di anti-climax. Pestato e zoppicante, Johnny ha un'occasione di fuga, un biglietto per una nuova vita offerto da Louise. Ma di fronte alla possibilità di un nuovo inizio, esita. E poi, in un gesto che è insieme di sfida e di resa, ruba i soldi a un amico e si allontana claudicante, di nuovo solo, scomparendo nel grigiore indifferente della città. Non c'è redenzione, non c'è cambiamento. Il ciclo ricomincia. È un finale che nega ogni conforto hollywoodiano e che sigilla il film come una diagnosi spietata, non solo di un individuo, ma di un'intera epoca storica sospesa tra la fine di un secolo e l'ansia per il successivo.

Vedere "Naked" è un'esperienza che lascia lividi. È un cinema che non accarezza ma colpisce, che non rassicura ma interroga brutalmente. È un pugno nello stomaco che toglie il fiato, sostenuto da una sceneggiatura che sembra sgorgare direttamente dalle viscere dei suoi personaggi e da un'interpretazione, quella di Thewlis, che travalica la recitazione per diventare testimonianza. È un'opera fondamentale, un monolite oscuro nel panorama cinematografico degli anni '90, la cui eco risuona ancora oggi, ogni volta che un uomo solo parla al buio, cercando di dare un senso al rumore assordante del nulla.

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