Nashville
1975
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Regista
Ventiquattro personaggi ruotano intorno ad una convention politica che si deve tenere a Nashville in Tennessee. Ma definire "rotazione" il loro movimento sarebbe riduttivo, quasi un'offesa all'organicità caotica e pulsante che Robert Altman orchestra con maestria in quello che è molto più di un semplice film corale: è una vera e propria sinfonia di esistenze, un affresco monumentale dell'America degli anni Settanta, vibrante e sfacciata.
Altman non fa altro che seguire le loro storie, una per una, ne tesse le fila come un sottile ordito e ricompone le tessere di un puzzle via via che ce lo presenta davanti. Non è la classica narrazione a incastro, bensì un'immersione quasi documentaristica, un flusso di coscienza collettivo dove le conversazioni si accavallano, i gesti si sfiorano e ogni dettaglio contribuisce a definire un mondo complesso. È la quintessenza del suo metodo anarchico eppure rigorosissimo, quello che aveva già sperimentato con successo in MASH o California Split, ma che qui raggiunge una perfezione vertiginosa, trasformando il rumore di fondo in un coro dissonante ma profondamente umano. Il suo cinema è un orecchio indiscreto, una telecamera fluttuante che coglie frammenti di verità tra il frastuono dell'esistenza.
Non è tanto il cast stellare, che pure annovera interpreti del calibro di Shelley Duvall, Lily Tomlin e Ronee Blakley, né tantomeno l’ambientazione, la capitale della musica country, a fare di Nashville un capolavoro del cinema contemporaneo, quanto piuttosto l’introspezione psicologica di ogni singolo personaggio e la scarnificazione di ogni desiderio represso che arriva con la potenza e l’impatto visivo di una scena d’azione. Altman, da antropologo implacabile, vuole l’uomo nella sua essenza più cruda: nelle sue debolezze mascherate da forza, nelle sue falsità elevate a virtù sociale, nella sua ipocrisia celata dietro un sorriso. Ogni ambizione, ogni frustrazione, ogni squallida illusione viene messa a nudo, spesso senza che i personaggi stessi se ne rendano conto, ma sempre con una profondità che travalica il mero giudizio morale. È un'autopsia dell'anima americana, un'indagine spietata sulla mercificazione dell'arte e dell'individuo.
La convention in questione è stata organizzata in supporto di Hal Philip Walker, un candidato indipendente alla presidenza degli Stati Uniti che fa dell’antipolitica e della lotta al conformismo il suo principale credo politico. La sua voce, spesso un'eco metallica dai megafoni o dalle radio, è una costante presenza fantasmatica, un commento sardonico sulla credulità popolare e sull'emergere di figure populiste che promettono un cambiamento radicale mentre si limitano a giocare sullo stesso campo minato della celebrità e della manipolazione. Nashville è, in tal senso, un'opera profeticamente inquietante, che anticipa di decenni la commistione sempre più indistinguibile tra spettacolo, politica e informazione, dove l'apparenza trionfa sulla sostanza e il carisma mediatico vale più di qualsiasi piattaforma programmatica.
E Nashville, oltre a tutto ciò, è anche uno straordinario film musicale. Non un musical nel senso classico, con numeri di danza coreografati e canzoni che fanno avanzare la trama in modo lineare, ma un'opera dove la musica è il tessuto connettivo della realtà narrata. Le canzoni del soundtrack originale sono ventisette, e molte di queste sono state composte dagli attori stessi, a cui Altman diede carta bianca. Questa scelta radicale infonde al film un'autenticità che pochi altri hanno saputo emulare. La musica country, con la sua narrazione di cuori infranti, sogni infranti e una malinconia intrinseca, diventa la colonna sonora perfetta per le vite sfilacciate e i desideri inespressi dei personaggi. Non sono semplici brani inseriti per abbellire, ma espressioni vive delle loro ambizioni, delle loro delusioni, della loro stessa identità. Sono lo specchio dei loro vizi privati e delle pubbliche virtù.
A questo proposito, celebre è la canzone che Keith Carradine intona sul palco, “I’m Easy”, composta da lui stesso e vincitrice di un Oscar. È una struggente melodia, quasi un lamento confessato, che aleggia nella sala tra i volti delle donne che lo hanno amato, o che credono di averlo amato, e di cui Altman, come un voyeur acquattato nell’ombra, spia ogni più sottile emozione che traspare dal loro viso. Qui, il cinema altmaniano si eleva a pura poesia visiva: un primissimo piano di Lily Tomlin, l’espressione straziata di Ronee Blakley, lo sguardo perso nel vuoto di Gwen Welles. Mentre le note della canzone si spandono nella sala, Altman ci presenta una galleria di donne sedute in ascolto, ognuna con il proprio carico di pensieri e di emozioni, vittime o complici del fascino seducente del divo, ma soprattutto della propria vulnerabilità. È un momento di rara intensità, una pausa di riflessione collettiva che condensa l'intero universo emotivo del film. La scena è un micro-cosmo che riflette la disillusione e la ricerca disperata di connessione in un mondo dominato dalla finzione e dall'auto-promozione.
In questo intricato labirinto umano, ogni singola storia, pur nella sua apparente autonomia, convergerà verso un destino comune. Ogni singolo sforzo, ogni ambizione, ogni inganno si intreccerà inevitabilmente con quello di un altro personaggio chiamato in causa in una sorta di gioco infinito di specchi, fino al sorprendente e tragico climax che, con la sua irruenza improvvisa, squarcia il velo della superficialità e rivela la fragilità intrinseca di un sistema fondato sull'illusione e sulla performance. Nashville non è solo un film sulla musica o sulla politica; è una radiografia di un'epoca e, in definitiva, dell'eterna ricerca umana di significato e riconoscimento in un mondo che sembra sempre più propenso a consumare e dimenticare. Un capolavoro che continua a risuonare con una pertinenza disarmante, quasi fosse stato girato ieri.
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