Nebraska
2013
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Regista
In un bianco e nero sfibrato e malinconico, che evoca l'essenza stessa della memoria e di un'America quasi dimenticata, Alexander Payne mette su pellicola questa storia screziata da un amaro confronto con la vecchiaia e i suoi grotteschi retaggi. È un bianco e nero non meramente estetico, bensì programmatico: un omaggio visivo al grande cinema americano del passato, un'eco delle fotografie di Walker Evans e delle tele di Edward Hopper che hanno immortalato la malinconia delle province. Questa scelta stilistica eleva la narrazione, spogliandola del superfluo cromatico per rivelare la pura essenza dei volti, delle rughe, dei paesaggi desolati e, infine, dell'anima stessa di un paese in bilico tra il sogno e la disillusione.
Il suo sguardo è lucido e obiettivo, non è interessato a muovere i fili retorici del Pathos né quelli del compatimento. Questo approccio, distintivo della sua filmografia – si pensi a A proposito di Schmidt o a Sideways –, è una cifra stilistica che coniuga la compassione più profonda con un’implacabile onestà. Payne non elargisce facili consolazioni; piuttosto, osserva l'umanità nelle sue manifestazioni più fragili e testarde, guidando lo spettatore attraverso le pieghe di un'esistenza che rifiuta ogni forma di autocommiserazione. La sua è una narrazione intrisa di quel 'tenero disincanto' che non giudica, ma accoglie, celebrando la dignità intrinseca anche nella più comune delle disavventure. È attraverso l'ingenua poetica di un viaggio senza scopo che padre e figlio si perdono e si ritrovano, riannodando i fili di un legame quasi reciso dal tempo e dall'incomunicabilità.
Colossale l’interpretazione di Bruce Dern del personaggio principale, una mimica e un linguaggio corporeo che donano a Woody Grant una sfumatura di appannata meraviglia, di sospesa incredulità e di sfrontato cinismo che innalzano quest’opera a punto di riferimento cinematografico. La sua presenza scenica, un’alchimia di gesti misurati e sguardi che celano interi universi di ricordi, trasforma Woody in un’icona silenziosa della tenacia senile. Dern, attore di razza con una carriera costellata di ruoli complessi e spesso ai margini (si pensi a Tornando a casa o ai suoi lavori con Hal Ashby), trova in Payne il terreno fertile per una performance che è summa e coronamento di un'intera vita d'arte. Il suo Woody è un amalgama di 'appannata meraviglia,' quella scintilla infantile che non si spegne mai, di 'sospesa incredulità' di fronte all'assurdità del mondo, e di 'sfrontato cinismo' che è scudo contro le troppe delusioni. È una recitazione che non ha bisogno di artifici, ma si affida alla pura essenza dell'essere, elevando quest'opera a punto di riferimento ineludibile per l'arte attoriale.
Woody Grant, infatti, non è un semplice archetipo, ma un personaggio dalla stratificazione complessa: un anziano padre di famiglia logorato dagli anni e dalle abitudini, con un alcolismo appena sopito che ne incornicia le stravaganze. Il suo rancoroso disprezzo verso un mondo che l'ha forse dimenticato, o che non gli ha mai concesso una vera possibilità, è curiosamente bilanciato da una tenera ingenuità quasi fanciullesca. È un’anima persa nel tramonto della vita, aggrappata all'illusione di una vincita che per lui non è solo denaro, ma riscatto, un'ultima prova di validità in un'esistenza percepita come un susseguirsi di mancate promesse.
Così quando riceve per posta un biglietto di una società chiamata Mega Sweepstakes Marketing in cui si dice che il destinatario è vincitore di un premio da un milione di dollari di una lotteria, Woody decide unilateralmente di mettersi in viaggio per il Nebraska, con destinazione Lincoln, la città in cui ha sede la società che dovrebbe consegnargli il premio. La ricezione di quel banale biglietto, un classico espediente narrativo che funge da MacGuffin per la vera trama emotiva, innesca una reazione a catena prevedibile solo nella sua irrazionalità. La sua ostinazione è leggendaria e a nulla valgono i tentativi del figlio David, un uomo dal buon senso pragmatico, di spiegargli la natura ingannevole dell’operazione di marketing. La resistenza di Woody è un atto di fede cieca in un sogno, o forse nel bisogno di credere ancora in qualcosa. Ed è proprio questa incrollabile caparbietà che finisce per convincere David, dopo vani tentativi di dissuasione, a intraprendere con lui questo improbabile pellegrinaggio.
Così dopo vani tentativi di dissuaderlo David parte con Woody alla volta di Lincoln. Il loro viaggio, un'epopea sobria e rivelatoria attraverso le sconfinate e spesso malinconiche pianure del Midwest, diventa così una sorta di catarsi. È l'occasione per David di ripercorrere le tracce di un padre che non ha mai veramente conosciuto, o che aveva forse smesso di voler conoscere. Ogni sosta in paesini dimenticati, ogni incontro con parenti lontani o vecchi conoscenti di Woody, non è un semplice episodio, ma un tassello che ricostruisce il mosaico della vita del padre, rivelando aneddoti, incomprensioni, e la complessa rete di relazioni che hanno plasmato Woody. Emergono i fantasmi del passato, le gelosie familiari per l'eredità, la curiosità e la grettezza della gente, tutti elementi che dipingono un quadro disincantato ma profondamente umano dell'America rurale. E in questo contesto, la figura di Kate, la madre (interpretata con tagliente umorismo da June Squibb, candidata all’Oscar per il ruolo), non è un mero contorno, ma un pilastro di saggezza schietta e affetto ruvido che incarna la resilienza di una generazione. È un percorso che, paradossalmente, non porta a una destinazione fisica di ricchezza, ma a una riscoperta emotiva: una vicinanza che il tempo e i guai della vita avevano dissolto.
Al di là della sua apparente semplicità, Nebraska è un piccolo angolo fiorito, un balsamo che ristora l'anima in un'epoca di iperstimolazione sensoriale. Woody, con la sua inesorabile marcia verso un miraggio, si eleva a icona universale: il simbolo dell'uomo comune che cerca un senso, una dignità, un riconoscimento. La sua figura rimane marchiata a fuoco nell’immaginario dello spettatore, che esce dal cinema stordito ed estasiato, non per la grandiosità degli eventi, ma per la profondità delle emozioni suscitate. Inebriato da una storia in bilico tra la gravità del dramma e la leggerezza della commedia – un equilibrio delicatissimo che Payne padroneggia con maestria – e animato da una 'poetica sghemba e commovente' che solo i grandi maestri sanno far balenare. Nebraska non è solo un film; è un’esperienza contemplativa, una riflessione sulla vita, la morte, il perdono e l'incrollabile speranza, che riafferma il potere del cinema di trovare la poesia nell'ordinario e la grandezza nell'umile.
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