Nel nome del padre
1993
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Regista
Un ragazzo corre. Corre per le strade di Belfast, inseguito dai soldati britannici, mentre la chitarra incendiaria di Jimi Hendrix urla "Voodoo Child". Non corre per una causa, non è un martire in fieri né un soldato dell'IRA. Gerry Conlon, nella magistrale e febbrile incarnazione di Daniel Day-Lewis, corre perché ha rubato del piombo da un tetto. È un ladruncolo, un figlio scapestrato, un piccolo farabutto la cui unica ideologia è la fuga dalla noia opprimente di una città squarciata dal conflitto. È da questo dettaglio, da questa scheggia di realismo anti-eroico, che Jim Sheridan costruisce l'architettura monumentale di Nel nome del padre, un'opera che trascende il cinema politico per farsi tragedia greca, dramma carcerario e, in ultima istanza, un saggio quasi teologico sulla trasmissione della colpa e della grazia tra padre e figlio.
Il film, basato sull'autobiografia di Conlon, Proved Innocent, si innesta nel filone del cinema d'inchiesta che ebbe il suo acme negli anni '70 con maestri come Costa-Gavras (Z - L'orgia del potere) o Francesco Rosi (Il caso Mattei). Ma Sheridan, irlandese fino al midollo, devia la traiettoria. Se in quei film la macchina della verità si muoveva per smascherare un sistema corrotto, qui il sistema è un leviatano cieco, quasi kafkiano. Come Josef K. ne Il processo, Gerry Conlon e i suoi amici (i "Guildford Four") vengono risucchiati in un incubo burocratico e giudiziario la cui logica interna è inaccessibile e mostruosa. Non sono accusati di un crimine, sono accusati di essere la risposta conveniente a un crimine, il capro espiatorio necessario a placare la sete di vendetta di una nazione ferita dagli attentati dell'IRA. L'interrogatorio, girato con una violenza psicologica quasi insostenibile, non è una ricerca della verità, ma una fabbricazione della stessa, un rito di estorsione verbale che trasforma l'innocenza in un dettaglio irrilevante.
Ma è quando le porte del carcere si chiudono che il film rivela la sua anima più profonda e si spoglia della sua pelle di thriller politico. La prigione, spazio cinematografico per eccellenza della spoliazione umana (da Bresson di Un condannato a morte è fuggito a Becker de Il buco), diventa qui un palcoscenico elisabettiano, un microcosmo dove si consuma il vero dramma. In cella con Gerry non c'è solo un innocente, ma due: suo padre, Giuseppe (Pete Postlethwaite), implicato assurdamente nella stessa cospirazione. È qui che il film compie il suo scarto più geniale. La Storia, con la sua S maiuscola, diventa lo sfondo sgranato di una vicenda intima e universale: la riconciliazione impossibile e poi necessaria tra un padre e un figlio.
Giuseppe Conlon non è un eroe. È un uomo mite, malato, la cui forza risiede in una fede incrollabile e in una dignità silenziosa, quasi fastidiosa per il figlio ribelle. Pete Postlethwaite, che Steven Spielberg definì "probabilmente il miglior attore del mondo" dopo aver lavorato con lui in Jurassic Park, offre una performance di una potenza sotterranea, fatta di sguardi stanchi, di preghiere sussurrate, di una resilienza che non ha bisogno di urlare. È l'ancora morale del film, la roccia contro cui si infrange la rabbia nichilista di Gerry. Il loro rapporto è un duello giocato in pochi metri quadrati: la ribellione anarchica e postmoderna del figlio contro l'integrità antica, quasi biblica, del padre. Sheridan filma questa dinamica con una prossimità commovente, trasformando la cella in un confessionale, un utero, una tomba. È in questo spazio asfittico che Gerry, spogliato di tutto, impara a guardare suo padre non più come un simbolo di debolezza, ma come l'incarnazione di una forza che lui non ha mai saputo di possedere. La lotta per la sopravvivenza fisica si trasforma in una battaglia per la salvezza spirituale.
Daniel Day-Lewis, come sua consuetudine, non interpreta Gerry Conlon: lo diventa. La sua metamorfosi è sbalorditiva. Passa dalla spavalderia strafottente del giovane punk di Belfast, alla disperazione allucinata dell'interrogatorio, alla rabbia impotente del detenuto, fino alla determinazione glaciale e quasi sacerdotale dell'uomo che ha ereditato una missione. Il suo corpo stesso diventa una mappa del suo viaggio interiore: la spavalderia iniziale si contrae in un fascio di nervi, per poi distendersi in una postura di rinnovata dignità. È una performance che vive di picchi furiosi e di silenzi abissali, un capolavoro di immedesimazione che segna uno dei vertici della sua carriera.
Il film è anche una riflessione meta-testuale sul potere della parola e dell'immagine. La confessione estorta è una "storia" falsa che diventa verità legale. La campagna per la liberazione, guidata dalla tenace avvocatessa Gareth Peirce (una Emma Thompson di adamantina intelligenza), è la costruzione di una contro-narrazione, una "storia" vera che lotta per emergere. Il cinema stesso, con la sua capacità di dare corpo e voce ai dimenticati, diventa l'atto finale di questa battaglia. La scena in cui Gerry, finalmente libero, esce dal tribunale e si rivolge alla folla e alle telecamere, non è solo la chiusura del cerchio narrativo, ma una dichiarazione di poetica. Sta parlando al mondo, ma soprattutto sta parlando a noi, spettatori, investendoci del ruolo di testimoni finali. "Vado a lottare per mio padre. Nel nome del padre". La frase, che dà il titolo al film, assume una valenza polisemica potentissima: è il nome di Giuseppe, ma è anche un'invocazione quasi religiosa, un appello a una giustizia superiore, umana prima che divina.
Jim Sheridan, insieme al co-sceneggiatore Terry George (che poi dirigerà Hotel Rwanda, un'altra discesa nell'abisso dell'ingiustizia umana), orchestra questo complesso materiale con un equilibrio magistrale. La colonna sonora, che mescola l'energia rock di Hendrix e Bob Marley alla malinconia struggente delle musiche originali di Trevor Jones e delle canzoni di Bono e Gavin Friday, non è un semplice accompagnamento, ma un vero e proprio commentario emotivo e culturale, la voce di una generazione intrappolata tra ribellione e tradizione. La fotografia di Peter Biziou passa dai toni freddi e desaturati di una Belfast sotto assedio, ai colori psichedelici e illusori della Londra comunarda, fino al grigiore opprimente e quasi monocromatico della prigione, mappando visivamente i paesaggi interiori dei personaggi.
Nel nome del padre non è un film sull'IRA, né un pamphlet contro il sistema giudiziario britannico. Questi sono gli elementi del dramma, non il suo cuore. Il suo nucleo incandescente è la scoperta che la vera prigione non è quella con le sbarre, ma l'incapacità di riconoscere il valore di chi ci sta accanto. È un film sulla paternità come eredità, non di sangue o di terra, ma di principi. Gerry Conlon entra in prigione come un ragazzo che fugge da suo padre e ne esce come un uomo che ne porta avanti il nome. L'ingiustizia storica, per quanto brutale, diventa il catalizzatore paradossale per un atto di amore e redenzione. È questo scarto, questa capacità di trovare l'universale nel particolare, di trasformare una cronaca di errore giudiziario in un'epopea dell'anima, che eleva il film di Sheridan da grande opera civile a capolavoro senza tempo. Un'opera che ci ricorda che, a volte, per trovare la propria voce, bisogna prima imparare ad ascoltare quella, sommessa ma indistruttibile, di un padre.
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