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No Other Land

2024

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Forse nessun film vi turberà e vi commuoverà più di quest'opera. No Other Land è un atto di cinema e di co-resistenza di una potenza e di un'urgenza quasi senza precedenti. Vincitore del premio per il miglior documentario al Festival di Berlino, il film è il risultato del lavoro di un collettivo di quattro registi, due israeliani e due palestinesi, che hanno unito i loro sguardi per creare non un reportage, ma un'esperienza immersiva e straziante. Un'opera che non parla di un dialogo impossibile, ma che è, nella sua stessa creazione, un atto di dialogo.

Il film ci porta a Masafer Yatta, una comunità di villaggi palestinesi nelle colline a sud di Hebron, in Cisgiordania, una terra che le autorità israeliane hanno designato come zona di addestramento militare. Per anni, l'attivista e giornalista palestinese Basel Adra ha filmato con la sua telecamera la lenta e sistematica demolizione della sua comunità da parte dell'esercito israeliano: case distrutte, generatori confiscati, vite sradicate. Parallelamente, seguiamo l'alleanza che Basel stringe con Yuval Abraham, un giornalista investigativo israeliano che usa i suoi privilegi e il suo accesso per portare queste storie a un pubblico più vasto. Il film è la cronaca di questa lotta e di questa amicizia, un diario a quattro mani scritto con la macchina da presa.

Il valore artistico ed estetico di quest'opera risiede nella sua totale aderenza a un'estetica della necessità. Non c'è nulla di patinato, nulla di formalmente bello nel senso classico del termine. La regia è grezza, immediata, spesso sgranata. La camera a mano di Basel non è uno strumento per creare uno stile, ma è un'estensione del suo corpo, un occhio che trema di rabbia e di paura, uno scudo fragile contro i soldati, un'arma per catturare una verità che altrimenti svanirebbe. In questo, il film si ricollega alla grande tradizione del cinéma vérité, ma la spinge alle sue estreme conseguenze. Non è più l'osservazione di una realtà, è la partecipazione a una lotta per la sopravvivenza in cui l'atto stesso di filmare è un atto di resistenza. Se si volesse azzardare un'analogia più insolita, la tensione e il senso di minaccia incombente che pervadono il film ricordano quasi un found footage horror: la camera è sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato, il pericolo è costantemente fuori campo, e ogni incontro con le autorità è carico di un'ansia quasi fisica.

La questione israelo-palestinese nel cinema è stata a lungo raccontata da voci esterne o da prospettive nettamente definite. Abbiamo avuto opere potenti che hanno dato voce alla narrazione palestinese e altre che hanno esplorato le complessità e le ansie della società israeliana. La genialità di No Other Land sta nel superare questo schema binario. La sua innovazione più profonda è la collaborazione autoriale. Il film non è solo la storia dell'alleanza tra Basel e Yuval, ma è il prodotto di quella alleanza. Lo sguardo palestinese di Basel, che vive l'occupazione sulla sua pelle, si fonde con lo sguardo israeliano di Yuval, che osserva e decostruisce il sistema dall'interno. Questa doppia prospettiva crea un effetto meta-cinematografico potentissimo: vediamo le immagini girate da Basel, e poi vediamo la troupe israeliana che filma i soldati mentre cercano di impedire a Basel di filmare. Siamo testimoni non solo di un'ingiustizia, ma anche della lotta per il diritto di documentarla. Il film diventa così una profonda riflessione sull'atto del guardare, sulla responsabilità del testimone e sulla possibilità di creare un noi condiviso dietro la macchina da presa, anche quando il mondo esterno impone un noi contro di loro.

Al di là del suo potente messaggio politico, il film possiede un valore estetico e culturale che risiede nella sua profonda umanità. Non è un film di tesi, ma un film di persone. La dinamica tra Basel e Yuval è un ritratto toccante di un'amicizia che riesce a fiorire nelle condizioni più aride. Il rapporto tra Basel e suo padre, a sua volta un attivista, è una riflessione commovente sulla trasmissione generazionale della lotta e della speranza. E, soprattutto, il film è una meditazione sul significato di "casa" e di "terra". Il titolo, No Other Land, è il cuore della questione. Per i residenti di Masafer Yatta, quella non è una terra qualunque, un pezzo di territorio su una mappa politica. È il luogo della loro memoria, della loro identità, l'unico posto che possono chiamare casa. Il film ci fa sentire il peso di questo legame ancestrale, e la tragedia insita nello sradicamento di una comunità dalla sua terra.

In definitiva, No Other Land si guadagna il suo posto nel canone non solo per la sua urgenza politica, ma per la sua rivoluzione formale e etica. È un'opera che espande i confini del documentario, trasformandolo in uno strumento di testimonianza collaborativa. Dimostra che il cinema, anche con i mezzi più scarni, può ancora essere un atto di coraggio, un modo per costruire ponti di empatia laddove altri costruiscono muri. Non offre soluzioni facili, ma compie l'atto più importante: ci costringe a guardare, a sentire, e a non poter più dire di non sapere. È un'opera essenziale, un pezzo di cinema che è al contempo un documento storico e un fragile, testardo, indispensabile manifesto di umanità.

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