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Nomadland

2020

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Nell’arido deserto dell’esistenza post-industriale, dove le radici affondano nella sabbia di un tempo che sembra aver smarrito la propria direzione, “Nomadland” si staglia come un monolite di celluloide, un enigma avvolto nella polvere delle strade dimenticate e nel silenzio assordante di un sogno americano in frantumi. Chloé Zhao, autentica sciamana della settima arte, non si limita a dipingere un quadro, ma ci conduce in un pellegrinaggio viscerale e introspettivo attraverso le pieghe più recondite dell’America interiore, un paesaggio umano non solo segnato, ma ridefinito dalle cicatrici profonde della crisi economica del 2008. Quella che per molti fu la Grande Recessione, per i protagonisti di questa storia è stata una vera e propria implosione del concetto stesso di stabilità, costringendo intere generazioni, in particolare gli anziani che vedevano svanire pensioni e risparmi, a reinventare il proprio rapporto con la casa, il lavoro e la dignità. Il film non è solo un’istantanea di una realtà marginale, ma un’indagine quasi archeologica sui sedimenti di una cultura del consumo che ha espulso i suoi elementi meno funzionali, lasciandoli a vagare ai margini, ma riscoprendo in tale marginalità una nuova, inaspettata forma di libertà.

La nostra guida, in questo viaggio di riscoperta e resilienza, è Fern, interpretata da una Frances McDormand la cui ieratica e sfuggente presenza si manifesta con la forza di un miraggio nel deserto. Lontana da ogni isteria o facile sentimentalismo, McDormand, già vincitrice di due Oscar e produttrice esecutiva del film, offre una performance di una sobrietà disarmante, un tour de force di sottrazione che lascia affiorare l'anima del personaggio attraverso sguardi, gesti minimi e silenzi eloquenti. Fern, vedova e disoccupata dopo il collasso della sua città industriale, Empire, Nevada, non è semplicemente una vittima, ma una moderna nomade che, con dignità inflessibile, abbraccia la precarietà non solo come necessità, ma come stile di vita, quasi una dichiarazione filosofica. A bordo del suo furgone, battezzato con un nome così evocativo come Vanguard – avanguardia, precursore – attraversa un’America marginale e spesso invisibile, popolata da anime erranti che, pur spinti dalla necessità economica, hanno riscoperto o scelto la libertà, ambigua e complessa, dell’esilio volontario. La loro non è una fuga, ma una ridefinizione radicale dei parametri dell'esistenza, un ribaltamento del concetto di stabilità in favore di una liquidità esistenziale, dove il tetto è il cielo e la strada la vera casa.

La macchina da presa di Zhao, in un’ode al cinema osservazionale, si muove come un occhio discreto e quasi impercettibile, catturando senza giudizio la bellezza struggente e desolata dei paesaggi del Midwest americano – vastità silenziose, albe rosate, tramonti infuocati – e la dignità silenziosa ma incrollabile dei suoi abitanti. L’approccio della regista, che ricorda per certi versi il neorealismo italiano o il cinema di Terrence Malick nella sua contemplazione del paesaggio come stato d’animo, si fonde con una sensibilità quasi documentaristica, ponendo al centro non tanto una trama intricata quanto l’autenticità delle esperienze vissute. I dialoghi sono scarni, essenziali, cesellati con la precisione di haiku, come le parole sussurrate intorno a un fuoco morente in una notte stellata, che rivelano più nell'implicito che nell'esplicito. La fotografia di Joshua James Richards è un esercizio di lirismo visivo che esalta ogni granello di polvere e ogni raggio di luce. E poi c’è la colonna sonora, firmata da Ludovico Einaudi, la cui eterea e malinconica risonanza, lungi dal essere un semplice accompagnamento, diventa essa stessa un personaggio, un sottofondo emotivo che evoca l’infinito vuoto degli spazi aperti, ma anche la profondità inesplorata delle anime che li attraversano, trasformando l’assenza di confini in una promessa, più che in una minaccia.

“Nomadland” è, per sua stessa essenza, un film che rifiuta con eleganza le facili etichette e le categorizzazioni superficiali. Non è un documentario nel senso stretto, pur abbracciando con coraggio e sensibilità la realtà di veri nomadi – molti dei quali interpretano sé stessi, come Bob Wells, un guru della comunità, o Swankie e Linda May – che conferiscono al racconto una stratificazione di autenticità raramente vista nel cinema contemporaneo. Ma non è nemmeno una finzione pura, scollegata dal terreno. È un ibrido sublime, un’opera audace che mescola la grana ruvida della realtà con la levigata texture della poesia, l'introspezione più intima con l'osservazione più acuta. Questo approccio, che ricalca e attualizza i precetti del neorealismo e del cinema verità, crea un ponte tra l'esperienza individuale e il fenomeno sociale, rendendo ogni incontro di Fern con gli altri nomadi un frammento di verità universale. È un viaggio iniziatico non solo per Fern, ma per lo spettatore stesso, un’immersione ipnotica e perturbante in un mondo parallelo, quasi un contro-universo, dove le regole tacite e spesso oppressive della società consumistica non valgono più, e dove il valore di un individuo non è misurato dal suo conto in banca o dalla grandezza della sua casa, ma dalla sua capacità di sopravvivere, di connettersi e di trovare significato in assenza di ogni sovrastruttura materiale.

Il film, con una delicatezza che non nasconde la sua forza concettuale, ci interroga profondamente sul senso primigenio della casa – non più un luogo fisico delimitato da quattro pareti, ma una condizione esistenziale, un rifugio mobile e interiore –, della comunità – reinventata come rete di supporto effimera ma vitale, un’ancora umana in un mare di solitudine, dove l’aiuto reciproco e la comprensione tacita superano i legami di sangue – e dell’identità – spogliata di ogni etichetta sociale o professionale, ridotta alla sua essenza più vulnerabile e autentica. In un’epoca ossessionata dal possesso e dall’accumulo, “Nomadland” si erge come un faro di controtendenza, mostrandoci con la limpidezza di un’acqua sorgiva che la felicità, o quanto meno la serenità, non risiede necessariamente nel possesso di beni materiali, nell’adesione a modelli prestabiliti di successo, bensì nella capacità inossidabile di adattarsi al cambiamento, di navigare il flusso imprevedibile dell’esistenza, di trovare la propria strada – letteralmente e metaforicamente – nel labirinto complesso e spesso crudele dell’esistenza post-capitalista. È un inno alla resilienza stoica, una meditazione sulla natura effimera dell'attaccamento e sull'eterna ricerca di un senso, un richiamo all'essenziale che risuona con l'eco dei filosofi trascendentalisti come Thoreau, che nella solitudine della natura trovavano la vera libertà.

In sintesi, “Nomadland” non è soltanto un film; è un’esperienza cinematografica rara e preziosa, un’opera che, con la sua inesorabile bellezza e la sua toccante umanità, lascia un segno indelebile nell’anima dello spettatore, molto tempo dopo che i titoli di coda sono svaniti. È un’ode sottile ma potente alla dignità umana di fronte all'avversità, un monito contro l'omologazione e un invito sussurrato a riconsiderare i veri valori della vita. Questo capolavoro di Chloé Zhao ci invita, quasi costringe, a riflettere profondamente sulla nostra condizione di esseri umani, sulla nostra intrinseca fragilità di fronte ai mutamenti sociali ed economici, ma anche sulla nostra immensa e spesso inesplorata forza interiore, sulla capacità di reinventarsi, di fiorire anche nella polvere. Non è un film sulla disperazione, bensì un inno commovente e ispiratore alla resilienza incondizionata, alla speranza che rinasce ad ogni alba sulle terre desolate, e a una libertà che non è l'assenza di vincoli, ma la conquista di sé stessi in un mondo che sembra aver dimenticato il valore dell'anima errante. È un cinema che respira, che vive, che ci parla di noi, oltre ogni confine.

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