C'era una Volta il West
1968
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Regista
Leone abbandona i toni cinici e roboanti della trilogia del dollaro e, per il suo primo film western prodotto negli States, sceglie una storia crepuscolare e malinconica, un vero e proprio requiem per un genere e un'epoca. Con questo capolavoro ci restituisce infatti da un lato il sapore di una frontiera ancora selvaggia e indomita, della sfida umana alla natura e all'ignoto, ma dall’altro dell’inesorabile declino di essa di fronte all’avanzare della Ferrovia, intesa ovviamente come metafora di Progresso, apportatore di modernità e inesorabile Nemesi dell’avventurosa esplorazione dei primi pionieri. Non è solo la fine di un'epoca storica, ma anche la disintegrazione di un intero palinsesto di miti e leggende su cui si è fondata l'epica americana, riletta attraverso lo sguardo disincantato e tragico di un europeo.
Un’opera realizzata con mezzi certo più opulenti rispetto alla trilogia del Dollaro, che le conferiscono una scala epica e una magnificenza visiva senza precedenti nel genere, ma che contiene in sè un deposito iconografico scolpito nell'immaginario collettivo, una vera e propria grammatica visiva e sonora che ha influenzato generazioni di registi. A contribuire in maniera determinante a questo status di icona è indubbiamente la colonna sonora di Ennio Morricone, un'architettura sonora che trascende la mera funzione di accompagnamento, diventando un personaggio essa stessa. Ogni motivo, legato indissolubilmente ai protagonisti, si fa espressione dei loro destini, delle loro memorie, delle loro vendette, elevando le singole sequenze a momenti di pura catarsi emotiva. Il lamento dell'armonica, la melodia malinconica di Jill, i motivi corali di Cheyenne e il suono implacabile e metallico di Frank: sono tutti elementi che si fondono con le immagini in una sinfonia di rara bellezza e potenza evocativa, scolpendo nella memoria dello spettatore non solo ciò che si vede, ma ciò che si sente.
La trama, pur lineare, è un mero pretesto per esplorare i drammi umani che si consumano in questo scenario di trapasso. Una giovane donna, Jill McBain, viaggia da New Orleans verso l’estremo confine dello Utah per incontrare il suo nuovo marito, un pioniere che aveva sognato di costruire una famiglia e una fortuna sul suolo del West. Troverà invece la sua nuova famiglia brutalmente assassinata e comincerà così il suo viaggio, non più di speranza, ma alla ricerca degli assassini, affiancata da due figure emblematiche di un mondo morente: un avventuriero con il volto enigmatico di Charles Bronson e un bandito dal cuore nobile, Cheyenne, interpretato dalla straordinaria fisicità di Jason Robards. Jill, splendidamente incarnata da Claudia Cardinale, emerge come un simbolo di resilienza e adattamento, l'unica figura capace di transizione dalla polvere del vecchio West alla promessa ambigua della modernità, incarnando la capacità del "femminile" di costruire laddove il "maschile" tende a distruggere o a rimanere intrappolato in un ciclo di violenza.
Menzione speciale, doverosa e persino riduttiva, per Henry Fonda nel ruolo del villain, Frank. La scelta di Leone di affidare a Fonda, icona assoluta di onestà e rettitudine nel cinema americano, il ruolo di uno spietato assassino di bambini, fu una provocazione geniale. I suoi occhi azzurri, così spesso associati alla virtù, diventano qui specchio di una malvagità glaciale e disumana, sovvertendo decenni di archetipi cinematografici e creando uno dei personaggi più memorabili e perturbanti della storia del cinema. Per contrasto, Charles Bronson nel ruolo di Harmonica, un vecchio eroe del west in cerca anche lui di vendetta, incarna il silenzio eloquente e la determinazione ferrea di chi porta il peso di un trauma incancellabile, la cui storia viene rivelata in un flashback agghiacciante, vero e proprio fulcro emotivo della narrazione.
Tantissime le scene da menzionare, veri e propri saggi di regia e montaggio, su tutte la scena iniziale (16 minuti) quando tre pistoleri attendono il treno in una stazione fantasma, in un lento e ozioso rincorrersi del tempo con dovizia di primi piani su piedi, mani, gambe, stivali, cappelli e, soprattutto, i volti segnati dalla polvere e dall'attesa. È una sinfonia di dettagli sonori – il frinire delle cicale, lo scricchiolio di una pompa a vento, il ronzio insistente di una mosca – che esasperano la tensione e il senso di un'attesa quasi metafisica, culminando nell'arrivo del treno come un'epifania di violenza inevitabile. Questo incipit non è solo una sequenza memorabile, ma una dichiarazione d'intenti di Leone: il tempo non è più scandito dall'azione frenetica, ma dall'attesa, dalla contemplazione, dalla tensione interiore dei personaggi, un approccio che ha ridefinito la semantica stessa del genere western.
Una parte della critica, come quella di Paolo Farinotti, non riuscì inizialmente ad afferrarne la grandezza e la natura rivoluzionaria, forse per la sua lunghezza inconsueta, il ritmo dilatato o la sua natura di "spaghetti western" elevato a opera d'arte. Peccato, perché si trattava di un film pionieristico e rivoluzionario che introduceva in modo profondo il concetto di profilo psicologico nel genere western, andando ben oltre la semplice dicotomia tra buoni e cattivi per esplorare le complesse motivazioni, i traumi e le inevitabili derive di un'esistenza votata alla violenza. C'era una volta il West non è solo un western, ma un lamento funebre per il West stesso, un'opera crepuscolare che ne smonta gli eroi e i miti per rivelarne la cruda, splendida e tragica verità, lasciando un'eredità indelebile nella storia del cinema. È un film che, nel suo doloroso addio a un mondo che non c'è più, ne celebra la memoria con una potenza lirica e visiva ineguagliabile.
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