La Sera della Prima
1977
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Regista
Un’opera in cui Cassavetes rende omaggio al teatro e anzi ne decreta l’assolutezza ontologica a fronte di una realtà esterna in cui spesso il peso di un’ostilità incombente diviene insostenibile. Il cinema di Cassavetes è sempre un'indagine spietata nell'animo umano, una sonda inarrestabile nella verità più scomoda e non filtrata dell'esperienza. Qui, la sua telecamera si volge verso il palcoscenico, non come semplice sfondo, ma come un crogiuolo ardente dove l'esistenza stessa viene raffinata, messa in discussione e, paradossalmente, denudata. A differenza di molti cineasti che cercavano rifugio nell'evasione cinematografica, Cassavetes, il maverick per eccellenza, ha sempre percepito il mondo esterno come un campo di battaglia emotivo, un luogo dove l'individuo è costantemente assediato da convenzioni sociali, da aspettative asfissianti e dalla brutalità intrinseca delle relazioni interpersonali. Il teatro, in questo contesto, non è solo un santuario o una fuga, ma un'arena di autenticità dove l'identità può essere destrutturata e ricostruita, un luogo di verità più pura, forse, di quella offerta da una vita sociale intrisa di finzioni. È un'affermazione audace: l'arte non si limita a imitare la vita, ma la trascende, offrendo una forma di "realtà aumentata" dove le tensioni del quotidiano raggiungono una catarsi, o un crollo, di portata epica.
Una divina Gena Rowlands lo affianca in questo progetto e ne oblitera la grandezza con un’interpretazione davvero gigantesca. Gena Rowlands, la musa per eccellenza e compagna di vita di Cassavetes, non si limita a "affiancare" il regista, ma definisce l'apice di questa dissertazione sulla performance e sull'esistenza. La sua Myrthe Gordon è un monumento di fragilità e forza, un'eruzione vulcanica di nevrosi e vulnerabilità che scolpisce ogni inquadratura. Non è solo un'interpretazione; è un'esperienza catartica per lo spettatore, un'immersione senza rete in un abisso emotivo. La grandezza di Cassavetes, in effetti, non viene "obliterata" nel senso di annullata, ma quasi rielaborata e sublimata attraverso la sua performance, elevando il film a vette inaudite. La loro sinergia artistica e personale, unica nella storia del cinema, traspare in ogni fotogramma, rendendo la performance di Rowlands non solo un'interpretazione, ma quasi una confessione a cielo aperto. Il suo lavoro qui, non meno che in capolavori sismici come Una Moglie (A Woman Under the Influence), è una lezione di recitazione organica, viscerale, dove ogni tic, ogni esitazione, ogni sguardo perso rivela strati di un'anima in frammenti. È una performance che sfida la definizione, situandosi al di là della tecnica, nel reame del puro sentire, della pura esposizione.
La storia è quella di Myrthe, un’anziana attrice di teatro che viene a conoscenza della morte di una fan. La donna inizierà a subire le conseguenze dell’incidente con sogni, allucinazioni e apparizioni inquietanti. La morte di Nancy, la giovane fan schiacciata da un'auto dopo uno spettacolo, non è un mero espediente narrativo; è la scintilla che innesca il crollo psicologico di Myrthe. Questo evento traumatico funge da catalizzatore, scardinando le difese di un'attrice già logorata dal tempo e dalla professione, da anni passati a "prestare" la propria anima a innumerevoli personaggi. È un monito brutale sulla labilità della vita, sull'ossessione del fan e, in ultima analisi, sul peso invisibile che la performance impone sull'artista. I sogni che la perseguitano, le allucinazioni che deformano la realtà e le apparizioni fantasmatiche della ragazza morta non sono solo manifestazioni di un disturbo post-traumatico; sono varchi attraverso cui l'inconscio di Myrthe riversa sul palcoscenico della sua mente le paure più recondite: l'invecchiamento, la perdita di rilevanza, la fragilità del confine tra l'essere e il recitare. Cassavetes, con la sua maestria nel catturare l'irregolarità del vivere, rende queste visioni non come effetti speciali gratuiti, ma come estensioni palpabili della sua psiche in disfacimento, quasi un'esternalizzazione del suo doppelgänger inquietante.
Nello stesso tempo l’attrice è preda di una crisi di nervi per il tono troppo oppressivo della sua nuova piéce. Myrthe si sente irrimediabilmente invischiata nel personaggio di cui sta vestendo i panni che la trascina in un un lento gorgo di follia. Cercherà in ogni modo di esorcizzare il suo alter ego improvvisando e cambiando le battute del copione. A complicare ulteriormente il quadro, il dramma che Myrthe sta provando, "Ricordi di un Amore", è una metafora crudele della sua stessa vita, un copione che riflette con impietosa esattezza le sue paure sull'invecchiamento, sulla solitudine e sulla stanchezza dell'anima. La pièce non è solo "oppressiva" per il suo tono malinconico, ma anche perché costringe Myrthe a confrontarsi con una versione amplificata e distorta della propria esistenza. L'attrice si sente non solo prigioniera del ruolo, ma divorata da esso, il suo "io" autentico risucchiato in un vortice di identificazione patologica. La sua ribellione – l'improvvisazione, le battute cambiate, la performance sempre più erraticamente personale – è un disperato tentativo di recuperare il controllo, di ricondurre il personaggio alla propria essenza, o forse di farle esprimere l'indicibile. È una lotta titanica tra l'artista e l'opera, tra la spontaneità e la finzione imposta, un omaggio implicito, forse, alla stessa metodologia di Cassavetes, che spesso incoraggiava i suoi attori a esplorare i confini tra sé stessi e i loro ruoli, a volte spingendoli al limite.
Verrà in suoi aiuto il co-protagonista, un uomo per tutte le stagioni che, tra le altre mansioni, riveste anche quella di amante. In questo crescendo di disorientamento, emerge la figura di Manny Victor, interpretato con una miscela perfetta di pazienza e frustrazione dallo stesso John Cassavetes. Manny non è il classico eroe; è un pragmatico, un uomo ancorato alla realtà, che cerca disperatamente di tenere Myrthe legata al mondo concreto del teatro e della professionalità. La loro relazione, intrisa di stanchezza affettiva e di un amore resiliente ma complesso, è il contrappunto necessario alla deriva di Myrthe. È lui che, con la sua presenza costante e il suo affetto burbero, tenta di ricondurla alla ragione, di ricucire lo strappo tra la donna e l'attrice. La sua è una funzione di ponte, di argine contro il caos, ma anche un simbolo della solitudine che l'artista sperimenta, persino circondata da chi le vuole bene. La sua "maschera" da uomo tuttofare, capace di gestire tanto le bizze artistiche quanto le crisi personali, riflette la poliedricità dei rapporti umani in un ambiente dove la vita e il lavoro sono inscindibilmente legati.
Un film splendido che sdoppia realtà e finzione per poi fonderle in un processo di lenta mistificazione. Lo spettatore è travolto dai 3 piani che si intersecano all’infinito: realtà, teatro e sogno. C’è infine la riflessione sull’altro da sè che si riverbera dall’attore portandolo a vivere multiple personalità. Come in un prisma l’io dell’attore si frantuma in miriadi di riflessi, ognuno dei quali è un lancinante interrogativo che attende una risposta. "La Sera della Prima" è, in ultima analisi, un'audace esplorazione meta-cinematografica e meta-teatrale. Non si limita a sdoppiare realtà e finzione, ma le fonde in un amalgama indistinguibile, un processo che non è tanto una "lenta mistificazione" quanto una brutale decostruzione dell'identità. Cassavetes, attraverso la sua regia volutamente "sporca", con primi piani serrati e un montaggio che rifiuta la fluidità convenzionale, ci immerge in un limbo dove i confini si dissolvono. Lo spettatore non è solo "travolto" ma quasi aggredito da questi tre piani – la quotidianità straziante di Myrthe, la finzione della pièce, e il subconscio onirico e allucinatorio – che si intersecano non all'infinito, ma in un unico, soffocante punto di fusione.
Il film diviene così un saggio sulla natura della performance non solo artistica ma esistenziale. La riflessione sull'altro da sé, sul doppelgänger, è il cuore pulsante del dramma. L'attore, in questo senso, è il paradosso supremo: colui che è chiamato a incarnare infinite personalità, ma nel farlo rischia di perdere la propria. È un'eco delle teorie di Pirandello sul velo delle apparenze, ma trasposto con la visceralità del cinema indipendente americano, con rimandi quasi artaudiani nella sua ricerca di un teatro che scuota e sconvolga. L'io dell'attore, come in un prisma infranto, si frantuma in miriadi di riflessi, ognuno dei quali è un lancinante interrogativo sull'autenticità, sul costo della creazione, sulla solitudine inerente a chi fa dell'espressione la propria vita. È un film che non offre risposte facili, ma pone domande brucianti sulla nostra identità fluida, sulla maschera che indossiamo ogni giorno e sul prezzo che paghiamo per interpretare il nostro ruolo nel grande teatro della vita. Soprattutto, La Sera della Prima è un'opera che ha sfidato le convenzioni del suo tempo, inizialmente accolta con incomprensione da una critica spesso impreparata a decodificare il linguaggio crudo e autentico del regista. Oggi, la sua audacia stilistica e la sua profondità tematica ne fanno un pilastro del cinema indipendente e un precursore di molte correnti successive, dimostrando come la vera arte, per quanto scomoda, trovi sempre la sua risonanza attraverso le generazioni. La sua eredità risiede proprio in questa capacità di cogliere la dissonanza tra ciò che siamo e ciò che siamo costretti a mostrare, rendendo "La Sera della Prima" un classico intramontabile per chiunque si interroghi sulla natura dell'arte e della psiche.
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