Oppenheimer
2023
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Regista
Ci sono film che raccontano la guerra dal fango delle trincee, altri dalla stanza dei bottoni dei generali. E poi c'è Oppenheimer di Christopher Nolan, che compie un'operazione più radicale e inquietante: racconta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di un'equazione su una lavagna, dalla superficie di una particella subatomica che, una volta scissa, dividerà per sempre la storia umana in un "prima" e un "dopo". Non è un film di guerra, né un biopic convenzionale. È un thriller psicologico-esistenziale di tre ore, un processo all'anima di un uomo e, con lui, a quella di un intero secolo.
La guerra, infatti, è raccontata da un punto di vista obliquo e trasversale. È un'entità astratta e onnipresente, un rumore di fondo che alimenta l'urgenza febbrile del Progetto Manhattan. Nolan, con una scelta stilistica tanto coraggiosa quanto efficace, ci nega la visione del campo di battaglia. Non vediamo i soldati, non vediamo i combattimenti. Vediamo fisici teorici che discutono di isotopi in un deserto del New Mexico, vediamo politici che cospirano in stanze chiuse e fumose. La guerra non è un evento, è un problema da risolvere, una gara intellettuale contro un nemico invisibile (i nazisti e i loro scienziati). Questo approccio rende il conflitto ancora più terrificante, perché lo spoglia di ogni eroismo per ridurlo a una corsa tecnologica verso l'annientamento. La vera battaglia non è a Stalingrado o in Normandia, ma nella mente tormentata di J. Robert Oppenheimer.
È proprio nel rapporto tra guerra e scienza che il film affonda la sua lama più affilata, esplorando le implicazioni etiche e la figura dello scienziato in rapporto con il suo tempo. Oppenheimer è tratteggiato come un Prometeo moderno, un titano dell'intelletto che ruba il fuoco agli dèi (scinde l'atomo) per donarlo agli uomini (il governo degli Stati Uniti), solo per ritrovarsi incatenato a una roccia, divorato non da un'aquila, ma dalla propria coscienza e dalle meschine macchinazioni politiche di uomini inferiori. I suoi rapporti con gli altri grandi scienziati, in particolare con Einstein, funzionano da contrappunto filosofico. Einstein è il vecchio dio che ha già visto il volto terribile della sua creazione (E=mc²) e ora vive in un esilio saggio e malinconico. Le loro brevi conversazioni sono i momenti in cui il film si ferma a interrogarsi: lo scopo del lavoro di Oppenheimer, la sua volontà di superare i limiti della conoscenza, coincide con l'uso che ne verrà fatto? La risposta, tragica, è no. Il creatore perde il controllo della sua creazione nell'istante stesso in cui essa nasce, e la scienza, da strumento di comprensione, diventa un'arma di potere.
La bomba, quindi, è il fulcro ambivalente dell'opera. È l'elemento di annientamento e sterminio, ma anche, nella logica perversa della guerra totale, il mezzo per porre fine alla guerra stessa. La sequenza del Trinity Test è il centro estetico ed emotivo del film, un pezzo di cinema di una potenza sublime e terrificante. Nolan costruisce una tensione quasi insostenibile che culmina in un'esplosione di luce a cui segue un silenzio assoluto, quasi religioso. È il momento in cui la scienza si fa metafisica, un atto di creazione e distruzione simultaneo che lascia i suoi stessi artefici ammutoliti, terrorizzati dalla loro stessa potenza. La domanda se la scienza sia imprigionata al volere della guerra o del progresso trova qui la sua risposta più ambigua. Nel XX secolo, le due cose sono diventate tragicamente indistinguibili, un Giano bifronte dove la ricerca della conoscenza pura è stata inesorabilmente cooptata e finanziata dalla necessità di costruire armi più efficaci.
Tutto questo è orchestrato attraverso l'inconfondibile estetica di Nolan, qui giunta a una sintesi matura. Il suo cinema evolve, abbandonando in parte i puzzle box più espliciti del passato per un'architettura narrativa che serve la psicologia del personaggio. La struttura non lineare, che alterna il racconto soggettivo di Oppenheimer (a colori) con la cronaca "oggettiva" dell'udienza di Lewis Strauss (in un bianco e nero granuloso), crea una dialettica tra memoria e storia, tra esperienza personale e registrazione ufficiale. C'è un raffinato gusto nella ricostruzione storica, ma anche una perfezione formale che, come sempre in Nolan, sfiora il manierismo. Ogni taglio, ogni nota della partitura martellante di Ludwig Göransson, ogni inquadratura è controllata con una precisione quasi matematica. Ma qui questo stile, a volte criticato come freddo, è perfettamente funzionale: racconta un mondo di calcoli, reazioni a catena e logiche implacabili.
Nel panorama del cinema contemporaneo, Nolan occupa uno spazio unico, e Oppenheimer ne è la prova definitiva. È un autore con una visione singolare che riesce a realizzare opere complesse, intellettuali e dialogatissime con il budget e la portata di un blockbuster. Se si cercano parallelismi, lo si può accostare a James Cameron per l'ambizione e la scala, ma dove Cameron spinge i confini della tecnologia, Nolan spinge quelli della struttura narrativa. La critica, spesso divisa sul suo lavoro, qui si è trovata di fronte a un'opera la cui densità e serietà sono innegabili, un film per adulti che tratta il suo pubblico con intelligenza.
Infine, l'excursus su cinema e guerra innestato sulla storia di Oppenheimer ci mostra un nuovo modo di raccontare il conflitto. Oppenheimer non appartiene al genere del combat film. È l'apice di un sottogenere che potremmo definire il "film di guerra della mente". Non si concentra sull'esperienza del soldato, ma su quella del creatore, del pianificatore, del teorico. È un dramma che si svolge nelle aule universitarie, nei laboratori e nelle aule di tribunale. È la cronaca di una guerra combattuta con la fisica quantistica, la cui esplosione più devastante non è quella di Hiroshima, ma quella che avviene, silenziosa e permanente, nella coscienza del suo artefice.
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