Padre Padrone
1977
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Regista
Vincitore della Palma d’Oro a Cannes e tratto da uno splendido libro autobiografico di Gavino Ledda, questo film dei fratelli Taviani è in primo luogo un poetico tentativo di far luce sul rapporto uomo-natura, non come bucolica idillia, ma come ancestrale legame di sopravvivenza e, perversamente, di prigionia. In secondo luogo, scandaglia i rapporti interfamiliari nelle zone rurali dove l’arretratezza culturale seguiva di pari passo quella economica, al fine di evidenziarne la durezza primordiale ma anche il vincolo indissolubile che, come una tenaglia di ferro, stringe l’individuo alla sua origine, impedendone la piena emancipazione. Il cinema dei Taviani, qui al suo vertice espressivo, si conferma ancora una volta un crocevia di neorealismo e afflato mitico, capace di trasfigurare la cronaca in epopea, il dramma personale in allegoria universale.
La storia è infatti incentrata su Gavino, un giovane strappato dal padre alla società – un atto di violenza simbolica che risuona come un antico sacrificio – per pascolare un gregge di pecore sui monti aspri e silenziosi della Sardegna. Un’esistenza che è una condanna atavica, un’eredità di fatica e ignoranza che si perpetua di padre in figlio. Il ragazzo si troverà immerso in una solitudine straniante, un mutismo forzato che lo relega a una dimensione quasi animale, in una natura aspra e forte, nel completo silenzio dei boschi. Un silenzio che, paradossalmente, diventa il suo primo maestro, un linguaggio primordiale fatto di suoni della terra, di ritmi della pastorizia, un vocabolario di istinti e necessità vitali, lontano anni luce da quello che il mondo "civilizzato" potrebbe offrirgli.
Su di lui incombe l’odiosa autorità del padre, un’incarnazione della tirannia patriarcale, figura monolitica e quasi archetipica di un mondo che resiste testardamente al progresso. Un padre che lo costringe a quella vita grama, una catena invisibile ma ferrea che lega Gavino alla sua miseria. La sua figura non è però un semplice stereotipo del genitore dispotico; egli è anche vittima di un sistema, prigioniero di una mentalità che vede nell’istruzione un lusso inutile, se non una minaccia, e nella sottomissione dei figli un dovere sacro, un codice d'onore distorto e auto-distruttivo.
La partenza per il servizio militare in Italia, catalizzatore di un’inedita ribellione, segna la prima vera frattura con quel mondo arcaico. L'esperienza della caserma, la scoperta di un linguaggio altro, l'incontro con una società più complessa e la frequentazione della scuola serale, che gli schiude le porte del sapere e della parola scritta, sono tappe cruciali di una faticosa e dolorosa liberazione. L’indipendenza economica dal padre, conseguenza di questa illuminazione intellettuale, lo porterà a tentare di staccarsi dal severo genitore, non solo fisicamente ma anche e soprattutto culturalmente e psicologicamente. È un percorso di rinascita, un Bildungsroman sui generis, che si snoda tra l’isolamento pastorale e l’anelito alla conoscenza. Gavino non solo impara a leggere e scrivere, ma diventa un filologo, un linguista, un uomo che ha trovato nella parola il suo vero strumento di potere, il "padrone" della sua stessa esistenza.
L’opera dà il meglio di sé non tanto nel complicato rapporto tra padre e figlio – pur intriso di una tensione quasi shakespeariana – quanto nella profonda e spesso ambivalente comunione con una natura ostile ma nello stesso tempo madre protettiva. È nella solitudine dei pascoli che Gavino impara a comunicare, prima con gli animali, poi con se stesso, sviluppando un linguaggio interiore che sarà il seme della sua successiva emancipazione. La natura sarda, ripresa con una fotografia che è essa stessa poesia – aspra, luminosa, quasi tattile – diventa un personaggio a tutti gli effetti, specchio delle tormentate dinamiche umane e culla di una saggezza primigenia. Si pensi alla sequenza del serpente o al momento in cui Gavino impara a suonare l'organetto, un simbolo di libertà e di espressione artistica che contrasta con il mutismo imposto.
Memorabile la scena in cui il padre va a prelevare Gavino da scuola per toglierlo per sempre dalla società e porlo alla guida del suo gregge di pecore. La scena è di una durezza esasperata, quasi biblica nella sua impietosa rappresentazione del conflitto generazionale e culturale: l’uomo espone alla maestra le sue ragioni con una fierezza cieca, quasi grandiosa nella sua tragica ignoranza, convinto di agire per il bene del figlio e per il rispetto di una tradizione millenaria. Mentre Gavino, in piedi in mezzo ai banchi, impotente di fronte al destino già scritto, non riesce a trattenere la pipì per la paura, in un gesto di umiliazione infantile che ne svela l’assoluta vulnerabilità e la violenza implicita di quel "passaggio di consegne". Questa scena, carica di simbolismo, condensa il dramma di una generazione che lotta per liberarsi dalle catene di un passato anacronistico, un grido muto di ribellione destinato a esplodere solo anni dopo.
Un’opera straordinaria, per la fotografia di Mario Masini e Giuseppe Ruzzolini, che cattura con la sua estetica rigorosa e commovente la nuda essenza di un paesaggio e di un’umanità, e per l’impatto emotivo che lascia nello spettatore una cicatrice indelebile. È un film che parla di liberazione, non solo individuale ma collettiva, dalla tirannia dell'ignoranza e della tradizione cieca. Un inno alla conoscenza come suprema forma di libertà e come unica via per diventare, finalmente, il "padrone" di se stessi. Un capolavoro che continua a interrogare, con la sua forza bruta e la sua profonda tenerezza, il significato di radici, identità e autonomia.
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